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Il ghiro, i fontanili e la quercia: l’oasi del Caloggio a Bollate

Scritto da Stefano Fusi. Postato in Notizie

Il ghiro, i fontanili e la quercia: l’oasi del Caloggio a Bollate

Un angolo di natura salvata ai bordi della metropoli. La porta d'ingresso al grande Parco delle Groane che attraversa la Brianza. Un gioiellino che ospita fontanili, fiori rari, animali selvatici, due grandi alberi secolari e migliaia di alberi piantati dal 1993. Dai sentieri dell'oasi WWF del Caloggio si può partire alla scoperta delle brughiere e dei boschi che rimangono seminascosti in una delle zone più urbanizzate d'Italia.     

La sua fama di pigro è malintesa. Si dice “dormire come un ghiro”, ed è pur vero che va in letargo a lungo e lo si vede tutto il giorno a ronfare. Ma è una leggenda metropolitana che sia un dormiglione accanito. In realtà il carinissimo animaletto di notte veglia e si scatena. Ne ho un ricordo pessimo (come lui deve averlo di me): una notte in una casa abbandonata nella selvaggia Val Grande, cercavo di dormire in un fienile, ma rumori continui e movimenti strani mi tenevano sul chi va là. Dopo ore con gli occhi sbarrati lo vidi: non era un topo come pensavo, ma il ghiro che impazzava, forse allarmato a sua volta dalla mia presenza invadente. Altra esperienza: alcuni amici avevano una casa in campagna con vecchie travi sul soffitto; il ghiro andava e veniva tutta la notte lungo le travi,  saltellando e rumoreggiando (si fa per dire: rumoretti continui) e lasciava segni della sua presenza sui tavoli e sul pavimento, ahimè da ripulire di continuo.

 

Insomma, il bradipo nostrano è diverso da quello che pensiamo. Parente degli scoiattoli, è simile a un topino ma ha una lunga coda simile appunto a quelle dello scoiattolo: del primo ha la mania di arrampicarsi sugli alberi, del secondo l’attitudine a intrufolarsi anche a terra in ogni pertugio; grigio di colore, il ghiro di giorno se ne sta nei buchi degli alberi o dei ruderi, o entra abusivamente nei nidi di legno fatti per gli uccelli; ma la notte no, circola furtivo e si industria per raccogliere ghiande, nocciole, bacche, castagne, qualche volta anche uova e insetti o altri invertebrati. Un po’ lento, è facile preda di volpi, gatti e rapaci, per cui non è una specie molto diffusa. Da ottobre a marzo sparisce e s’inabissa nel sonno, un sonno in cui russa rumorosamente e sembra sognare. Ma quanto riprende l’attività è un nottambulo con i fiocchi, altro che movida. A volte ritroviamo questo personaggio anche ai bordi della metropoli e vicino alle case, non solo sui monti. Ai margini meridionali della Brianza, dove un tempo a quanto pare lo si mangiava: l’arrosto di ghiro è una ricetta documentata in loco. Poca roba, quattro ossicini, ma nei tempi passati evidentemente ci si arrangiava anche dove oggi trionfano il benessere e l’industria con i corollari del consumo e dell’efficienza. Del resto, ricette a base di ghiro si trovano anche altrove, in Veneto per esempio; e al tempo degli antichi Romani era una leccornia riservata ai privilegiati: veniva catturato e fatto ingrassare, tenuto in vasi che riproducevano al forma circolare delle cavità degli alberi dove di solito vive e passa la giornata e i mesi invernali. Ora il poveretto è tutelato e non si può cacciare né ovviamente mangiare. E si riprende i suoi piccoli spazi.

Il parco delle Groane: brughiere e boschi

Stiamo parlando di uno degli animali ospiti di una piccola oasi che fa da punta meridionale del Parco delle Groane. Il parco è un miracoloso residuo di quella che fu la verde Lombardia. Attraversa la parte centro-occidentale della Brianza, salendo dalla tangenziale Nord di Milano (Bollate e Arese) fino a Lazzate e Lentate sul Seveso; qualche anno fa è stato ampliato e unito al parco della Brughiera Briantea e arriva fino alle porte di Como (Cantù e Cuggiago).

S’incunea ardito fra le case, i capannoni, gli impianti industriali più o meno attivi, le strade e quant’altro affolla queste plaghe, incurante di fumi, veleni, traffico e assembramenti. Se qui un tempo si mangiavano ghiri e non le rane che finivano nel piatto a Sud di Milano, è perché là c’erano molta acqua, canali e terreno bagnato in abbondanza dai fontanili e dalle risaie; qua a Nord della metropoli il terreno è più gramo, argilloso, l’acqua scorre via in superficie o resta in profondità, e c’erano molti più alberi spontanei che pioppeti. Qui nelle Groane il terreno è duro, difficilmente coltivabile. Si definisce terreno “ferrettizzato”, composto da argilla, sabbia e detriti.

La linea dei fontanili corre proprio qui: all’altezza di Milano le acque della falda sgorgavano appena si scavava, più in su erano almeno qualche metro più in basso.

“Groane” significa brughiera, era questo il paesaggio tipico: i fiori di brugo (o calluna) a fine estate riempivano di rosa e lilla il terreno; le gialle ginestre fiorivano invece in primavera. Per intenderci, la brughiera è un ambiente nordico, ambientazione tipica di romanzi inglesi, roba da Mastino dei Baskerville: questo è il lembo di brughiera più meridionale d’Europa, una testimonianza biologica-ecologica di incredibile importanza scientifica e storica. Una vera porta del Nord, che qui si incerniera con l’ambiente mediterraneo del resto d’Italia. Una zona dove si assaggiano scampoli di montagna: fioriture di genziane e betulle. 

Nel parco delle Groane restano alcuni tratti di boschi e di brughiera a ingentilire un poco la grande conurbazione che da Milano arriva ai laghi. Perciò nei primi anni ottanta facevamo visitare i boschi e le piccole brughiere fra Ceriano Laghetto, Cogliate e Misinto ai bambini delle scuole di città, quando venivamo qui a condurre lezioni di educazione ambientale.

L’altro nome di questa zona è “pianalto”: fra il torrente Guisa a ovest e Seveso a est il terreno comincia a essere più elevato rispetto a quello della metropoli, per ospitare poi le prime collinette e alzarsi solo in corrispondenza dei laghi, in questo caso il Lario. Questo inizio di dislivello lo si vedeva già nel terreno dove ora c’è l’oasi di cui stiamo per parlare, quella del Caloggio di Bollate. Pare infatti che il suo nome venga dal motto degli abitanti della zona: “cala l’oeucc”, “cala l’occhio”,  con il quale rimarcavano, con un certo orgoglio, che da qui la pianura comincia a lasciare posto ai rilievi. In effetti qui c’è il primo dislivello di qualche metro rispetto alla pianura, una sorta di terrazza naturale oggi spianata via dalla costruzione del canale scolmatore delle piene del Seveso. Ma lo si può intuire ancora, procedendo dall’oasi verso  nord, lungo il “Sentiero delle sette cascate”.  

Fra parentesi, notazione genealogica e di costume: quando a Milano dicevano che qualcuno è “vegnù giò cun la piena” (sceso con la piena del fiume) si riferivano metaforicamente a balordi, intendendo che erano arrivati con l’alluvione dalle montagne e dalle brughiere come relitti, detriti, tronchi e rami portati dalla corrente in piena. Uno dei miei nonni, pace all’anima sua, era fra questi, sceso attraverso le Groane da Lentate fino a Varedo, da cui mio padre a sua volta poi scivolò fino a Milano seguendo la china. Fra i boschi, le ciminiere e le villette delle Groane c’è una schiera di nipoti e bisnipoti del nonno.   

La zona delle Groane divenne un parco regionale nel 1976, esteso per circa 3400 ettari: erano anni protoambientalisti in cui si istituivano parchi regionali importanti, come l’altro del Ticino fatto negli stessi tempi per salvare il verde. Il parco oggi, insieme a quello della Brughiera Briantea, è di 8249 ettari. È meta di ciclisti-esploratori che possono percorrerlo in lungo e in largo anche per 50 chilometri, stando attenti a non deviare sulle mille piste d’asfalto circostanti; di naturalisti e gitanti che vanno per boschi e laghetti ma anche di curiosi delle testimonianze storiche. Ci sono molte antiche fornaci per usare l’argilla per farne laterizi, archeologia industriale fra cui una polveriera, ville eleganti e grandiose costruite dai benestanti nei secoli scorsi (soprattutto Seicento e Settecento) per prendere il fresco a due passi dalla metropoli, come la villa Borromeo di Senago, la Valera di Arese, la Mirabello di Lentate, la villa Arconati-Crivelli di Bollate (il “Castellazzo”), grande edificio barocco circondato da un bel giardino, spesso sede di eventi e  concerti. Ed eccoci proprio qui, vicino al noto Castellazzo. Al di là però di un canale secondario del Villoresi, di fianco alle case di Bollate. Un angolino che oggi è l’oasi del Caloggio, piccola ma importantissima per capire come era un tempo l’ambiente delle Groane e per salvarne una testimonianza. Ghiro compreso.

Reintroduzione delle genziane al Castellazzo di Bollate, nella brughiera a meno di un chilometro dall'oasi 

L’oasi del Caloggio

Come tutte le oasi che si rispettino, il Caloggio è attorno all’acqua. In epoca romana qui c’era un lago, le cui acque vennero drenate per l’agricoltura. In epoche più recenti, ci sono due fontanili storici, un secondario del Villoresi e il torrente Nirone. Questi è un fiumicello che in epoca romana passava per il centro dell’attuale Milano, proprio dove oggi ci sono il Castello, il Duomo e le Colonne di San Lorenzo. Ha una via dedicata, a fianco di via Torino. Il fiumicello nasce tuttora appena più sopra, a Cesate. Misconosciuto, è il corso d’acqua più pulito nell’ampia area che va dal Ticino all’Adda, salvatosi dal destino dei suoi fratelli maggiori Lambro, Seveso e Olona, vittime di epici inquinamenti. Il Nirone fu deviato e unito all’altro fiumicello Guisa, che insieme formarono un altro corso d’acqua, la Merlata. Avete presente il “bosco” di similgrattacieli di Cascina Merlata, ai fianchi dell’Expo, sorti in una zona improbabile, inquinata, piena di svincoli autostradali attorcigliati ma “rivalutata” grazie ai munifici padiglioni già in disarmo? Il piccolo incubo urbanistico è proprio vicino a Pero, dove nel 1961 fecero la raffineria. Nel giro di un anno, racconta la guida dell’oasi, tutti i 25 fontanili della limitrofa Bollate si seccarono perché l’industria succhiava acqua a dismisura. Nell’oasi rimangono gli invasi di due fontanili ma l’acqua non è più quella sorgiva, tanto è vero che gela: un tempo l’acqua dei fontanili aveva una temperatura costante perché veniva da sotto terra. L’acqua ora arriva dal vicino canale. È pulita e abitata da pesci rari nella zona come alborelle e cavedani, da anfibi anch’essi rari come il rospo smeraldino e il tritone, oltre che dalle comuni rane e raganelle. Il fontanili di un tempo, cavo Porro e cavo Litta, han lasciato il nome agli invasi; si univano nella roggia Triulza e portavano l’acqua per l’agricoltura rifornendo anche un mulino. Dove ora c’è il fantasma dell’Expo con le sue spianate, destinate a ospitare futuribili laboratori, c’era appunto la cascina Triulza con le sue marcite.

Il Nirone al Caloggio

Nel periodo tragico della seconda guerra mondiale vennero abbattuti tutti gli alberi dalla gente per riscaldarsi. Tutti tranne due querce, che restano monumentali nell’oasi, forse centenarie, bellissime. Restò nudo il fiumicello disgraziato, si costruirono case a due passi dalle sue rive e sul suo corso furono scaricati rifiuti a oltranza, fra baracche e orti abusivi, come spesso accade dove la natura è degradata: sembra che prenda il cupio dissolvi, e forse è un segno della tristezza oscura che prende l’animo quando si sente mancare la fonte della vita.

Il terreno, sette ettari, è di proprietà della ASL, oggi ATS, nella parte aperta al pubblico, e della città Metropolitana di Milano dove sono presenti i fontanili. Nel 1993 qualche bollatese si prende a cuore quel piccolo angolo di terra dimenticato e comincia a ripulirlo dai rifiuti e dalle infestanti  robinie, a piantare alberi, a portarci i bambini delle scuole per mostrare loro fiori e animali, a fare manutenzione dei sentieri. Un commovente abbraccio che riporta l’oasi alla vita. Un abbraccio efficace ed efficiente cui collaborano in tanti: l’Asl concede il comodato al WWF; il Comune aiuta a rimuovere i rifiuti; il Parco delle Groane, il Centro Forestazione Urbana del Boscoincittà e i Vivai ProNatura danno alberi e aiutano a piantumarli (almeno tremila gli alberi messi a dimora), aziende e privati forniscono attrezzi. Il boschetto rinasce, oggi è florido e popolato da volontari custodi che lo curano, sia animali che umani. Gli umani sfalciano i prati, curano gli alberi e i sentieri, gli animali spargono semi, le api impollinano, gli uccelli e le rane limitano gli insetti. 

 Il cavo Porro

Si può visitare l’oasi sempre e percorrerne i sentieri; ma la zona dei fontanili è chiusa per proteggerli, vi si accede solo con visite guidate dai volontari del WWF. Ci sono una zona picnic e pannelli didattici. L’oasi confina con un grande prato definito “stabile” perché non alternato mai ad altre colture;  sul prato oggi c’è un’azienda agricola che produce mirtilli, che tuttavia non ha nulla a che fare con l’oasi. Sempre meglio di un palazzo, però la guida dell’oasi lascia intendere che sarebbe stato bello conservarlo per quello che era, per riprodurre l’ambiente originario. Almeno, così interpreto le sue parole. Il ghiro brianzolo, industrioso e insonne, se la ride sotto i baffi: almeno l’agricoltura, suvvia, lasciatemela fare.  

Fiori rari e querce antiche

Dall’oasi parte un delizioso sentiero fra gli alberi, che in meno di un chilometro porta oltre il canale fino al Castellazzo di Bollate, anch’esso circondato dal verde e dove si può già vedere la brughiera. Insomma, da questa porticina lungo uno stradello si entra in un altro mondo e si può partire per escursioni importanti. L’oasi, in sé, si gira in poco più di mezzora; ma al Caloggio ci si può fermare a lungo a contemplare. Compaiono fiori che si trovano solo nei boschi antichi, con il terreno nutrito per secoli da rami e tronchi caduti, ben diverso dai neoboschetti che siamo costretti oggi a ricostruire attorno alla metropoli su terreno di riporto o svilito da secoli di uso. Scrive Maurizio Minora, uno dei “custodi” WWF dell’oasi: “Ci sono infatti delle autentiche rarità che possono essere considerate, a tutti gli effetti, dei relitti delle antiche foreste di querce, che un tempo ricoprivano la pianura padana. Proprio nel sottobosco si riscontra questa presenza inaspettata, oltretutto nella forma più appariscente: le fioriture invernali-primaverili. Queste specie hanno bisogno di un terreno ricchissimo di humus, che solo il suolo di una foresta secolare può avere; nei boschi di recente formazione o nei rimboschimenti risultano invece assenti. Le fioriture iniziano già in pieno inverno, per sfruttare la luce che filtra dagli alberi spogli, con i campanellini invernali (Leucojum vernum), seguiti dalle scille (Scilla bifolia), dagli anemoni di bosco (Anemone nemerosa) e dalla pervinca (Vinca minor). Quando sono presenti questi esemplari, possiamo affermare che ci troviamo di fronte ad un bosco arrivato intatto sino ai giorni nostri.” 

La fioritura dei campanellini 

Il bosco è stato rinfolitito dagli ambientalisti con alberi autoctoni (altrove nelle Groane invece ci sono pinete impiantate in epoca austroungarica, come a Cesate: avrebbero dovuto ammorbidire il terreno, negli intenti degli Austriaci, ma nel tempo hanno stentato e sono sostituite dai querceti). Ora è composto soprattutto da salici, ontani e arbusti lungo le rive dei corsi d’acqua, olmi, aceri campestri, querce e caprini (tipica associazione dei boschi lombardi). I suoi abitanti animali sono insetti (molte farfalle), i tipici uccelli silvani (fra cui picchio rosso e picchio verde, cince); a pianterreno e sui tronchi i condomini dell’oasi ci sono minilepri e ricci, perfino la volpe, che si riproduce nella parte chiusa dell’oasi. Arrivano anche aironi, il martin pescatore, la sgarza ciuffetto (uccello molto raro, simile all’airone!) e i rapaci, a caccia e pesca fra l’acqua e le fronde. All’inizio dell’estate, ci sono anche le lucciole. Oltre che ai tanti lavori di manutenzione, i volontari invitano anche a vederle nei momenti giusti.

Il Martin Pescatore 

I veri custodi del bosco, i nonni che vegliano su questa moltitudine sono comunque le due bellissime querce secolari, due farnie, proprio l’essenza dell’antico albero sacro sia ai Romani che ai Celti. Non si sa bene perché siano sopravvissute alla strage di alberi nel periodo bellico. Piace immaginare che sia stato per una inconscia reverenza, che fermò le mani perfino di chi aveva freddo. Forse perché la forza è nel loro nome antico, Quercus Robur. Di forza e di antiche querce abbiamo tanto bisogno anche oggi, per sapere chi siamo e dove possiamo andare. A volte sembra di essere ancora in guerra, oggi che le foreste si tagliano per fare energia, nuova strage esorcizzata sotto il nome trendy di “biomasse”. Chi volesse imparare qualcosa dai vecchi tronchi e dalle radici, al contrario, sa dove trovarli. Si può usare come cartello indicatore il metallico “Albero della vita” dell’Expo, che troneggia a forse un chilometro da qui in linea d’aria, ostensione tardomodernista della parte della città che vive di pura immagine, del “fare bella figura” più che di sostanza, di showbiz finanziario più che del cuore in mano. Queste due querce non sono diventate scenario per selfie di massa, ma per fortuna sono vere, protette, vivranno ancora e continueranno a fare ghiande, magari si riprodurranno. È bello incontrarle.

Una delle querce secolari del Caloggio 

Oasi WWF del Caloggio

Via Caloggio, Bollate

Come ci si arriva

In treno si arriva a Bollate Nord, stazione delle Ferrovie Nord Milano, sulla linea Milano – Saronno (700 metri in linea d’aria dalla stazione).

In auto

Dalla Varesina (Saronno - Milano) o dalla nuova tangenziale Nord. Si consiglia di lasciare l’auto nell’ampio parcheggio a fianco della Piscina in Via Dante Alighieri e di percorrere la Via Caloggio a piedi.

In bici

Il Parco delle Groane è percorso in lungo e in largo da ottime piste ciclabili che però non toccano la sua punta sud. Con un po' di buona volontà si arriva anche al Caloggio percorrendo comuni sentieri.

Per le visite: tel. 3405761514  

Sito: http://albisn.altervista.org/index.html

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Per essere sempre informati sull’oasi del Caloggio si può seguire la pagina Facebook, dove sono pubblicate bellissime foto e tutti gli aggiornamenti per le visite e i “lavori in corso”: https://www.facebook.com/oasicaloggio

Si ringraziano Maurizio Minora e il WWF per alcune delle foto