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L'ex Wild West di Milano: Boscoincittà, Parco delle cave e oltre

Scritto da Stefano Fusi. Postato in Notizie

L'ex Wild West di Milano: Boscoincittà, Parco delle cave e oltre

La storia della prima forestazione urbana in Italia secondo criteri naturalistici e sociali, in un’area agricola abbandonata lungo la via Novara, a due passi dallo stadio Meazza. Il Boscoincittà è il fulcro di un’ampia area a verde insieme al vicino Parco delle Cave di Baggio, realizzato in un’area degradata e recuperata. Ora sono fra i parchi più belli e vissuti della metropoli, un modello per migliorare la vita di tutti a Milano collegando e ampliando i parchi esistenti. Ma gli amministratori ci sentono, da questo orecchio?

Avvertenza: il racconto è lungo perché comprende anche una parte iniziale sul quartiere Gallaratese, Trenno e dintorni, per localizzare e narrare la storia dei luoghi. Chi è interessato solo alla parte naturalistica legga da <<La “nuova frontiera” verde>> in poi.

Era il Lontano Ovest di Milano. Far West, così era denominato il Gallaratese, noto anche come “Galla”. Quartiere così chiamato perché si trovava sulla direttrice della via Gallarate, a sua volta così definita per via della sua direzione indicante la cittadina subvaresina. Fantasia di funzionari dell’urbanistica. Questa burocratica definizione negava da subito al quartiere qualsiasi riferimento locale: puro luogo di transito, nessuna identità, zona da colonizzare: non c’era una comunità, in tale luogo. La vicina Baggio almeno aveva un nome e una storia riconoscibili, le nuove case sorgevano attorno ad un nucleo storico. Il neonato agglomerato occidentale prendeva forma invece in una No Man’s Land, uno spazio selvaggio fra la città vera e propria e la residua campagna, fra la circonvallazione e la futura tangenziale. All’interno di questo West c’erano solo i piccoli agglomerati di Trenno, Figino, Quinto Romano: cascine e pochi abitanti.

Là su quel crinale, alla frontiera, lasciate le ultime tracce di civiltà, finivano le mappe e iniziavano i nebbioni, d’inverno. Avvenivano cose stupefacenti. Per dirne solo una: narra la leggenda che uno degli autobus là diretti, nominati come i missili nazisti (V1, V2, V3) e come essi spediti oltre il confine a recapitare nei nuovi quartieri dormitorio ciurme di lavoranti e studenti che la sera dovevano rientrare nelle abitazioni evacuando la fascia semicentrale dove operavano di giorno, lasciandola ai legittimi blasonati titolari; narra la leggenda, dicevo, che in una notte imprecisata dei primi anni Settanta del secolo scorso uno di questi autobus, penetrato nel muro di bruma all’altezza del QT8, sparisse con le decine di passeggeri che vi erano stipati facendo perdere completamente le proprie tracce. Alcuni raccontarono – ma si sa come vanno queste cose -  di averlo visto salire per errore sui tornanti del Monte Stella, ultimo bastione prima del Grande Nulla. Fra le ipotesi che si fecero per spiegare l’avvenimento: effetto collaterale sull’autista della mefitica miscela chimica di nebbia e nafta; improvvisa euforia di origine lisergica; sussulto fuori luogo di libertà;  impulso incontrollabile di vagabondaggio; spaesamento identitario aggravato con annessa rissa a bordo; incontro ravvicinato con alieni. Insomma, qualcosa di imponderabile. Gli animi di quei tapini forse si aggirano da allora sull’unica collinetta di Milano, sorta dall’accumulo di macerie e divenuta un parco.

Gli abitanti che superavano prove di iniziazione di tal fatta come l’inverosimile pigiatura nel bus e il percorso stesso, che provocavano terrori e pene fisiche, si guadagnavano così il diritto di affrontare l’ignoto. Erano appena stati spostati, al crescere della famiglia e dei sogni di camerette per i figli e di avanzamento sociale, dalla fascia precirconvallazione fino agli edifici prefabbricati del nuovo quartiere. Per tornare a casa in quelle plaghe ancora sconosciute, nelle notti di nebbia, si dovevano contare i lampioni poiché, fra le case tutte uguali affiancate per chilometri, era difficile financo riconoscere la propria. Infatti mancavano del tutto o scarseggiavano negozi, bar, supermercati, uffici postali, scuole o qualsiasi altro punto di riferimento riconoscibile. 

Un evento ben più interessante segnò comunque le loro le vicende proiettandoli sul un palcoscenico nazionale. A memoria, era il 1966. Il quartiere era appena nato, non ancora finito ma già popolato. Gli abitanti erano stati appena impilati nelle case di otto e più piani. <<Come le sardine>>, facevano notare i preti importati dalla Val di Non per carenza di vocazioni in città, rustici sacerdoti ancora adusi ai masi rasoterra e sconcertati da quei palazzi. Gli abitanti ebbero però il conforto e la sorpresa di veder materializzare un personaggio arcinoto proprio davanti al corso d’acqua che allora emergeva ancora in superficie. Era il fiume Olona, portatore di miasmi e veleni raccolti da tutta la produttiva provincia soprastante di Capannonia. Il corso d’acqua era intubato fra due pareti di cemento, ma sporgendosi dalle rive si potevano avvistare le acque di un colore metafisico tendente al marrone-grigio-violetto con periodiche spume fosforescenti di contorno e inconfondibile olezzo. In seguito venne interrato per pietà verso il fiume stesso e verso gli abitanti, già provati dalle conseguenze sanitarie e psicospirituali della confinante raffineria di Pero. Quest’ultima era un’arcana presenza che illuminava le notti proprio là dove ora sorgono i resti dei padiglioni dell’Expo, passate le luminarie festose della manifestazione, su terreni tuttora non bonificati, pare, dove però si realizzeranno straordinari apparati della mente e del futuro. Quella visione dantesca notturna era proprio a un tiro di schioppo dai Fabbriconi di testoriana memoria, i falansteri dove si aggrumavano gli immigrati di allora (comunitari, anzi nazionali seppur terroni).

Il Molleggiato lungo l’Olona

Sull’orlo di questo abisso periferico fece la sua apparizione nientedimeno che un’icona della musica, Adriano Celentano. Il giovincello era già al top del successo e ci venne a girare un video con la sua canzone “Il ragazzo della Via Gluck”. Era già stata completamente urbanizzata e cementificata la via della sua storia personale, a fianco della Stazione Centrale, ed era quindi inutilizzabile ai fini della testimonianza. Quale luogo poteva scegliere dunque il Molleggiato per ambientare la clip con i prati che sparivano sotto l’avanzare delle case su case, catrame e cemento? Ma il Galla, ovviamente, che in quegli anni si guadagnava i galloni di Nuova Frontiera del Meneghin Dream. Del quartiere si magnificavano in quegli anni le magnifiche sorti e progressive in convegni e dibattiti di dotti e competenti pianificatori e urbanisti e di autorevoli docenti e politici. Sciami di operosi milanesi di seconda generazione là si stavano trasferendo con armi e bagagli. Ed eccoli, appena sbarcati nelle case popolari appena finite di assemblare, con le masserizie ancora metà imballate, stupiti, correre fuori per veder cantare l’Adriano nazionale con seguito di telecamere. Serio, nostalgico, ispirato e impegnato, scavallava lungo l’Olona. Camminava là dove ora adesso si erge il centro commerciale che ha oscurato il ricordo del fiume inabissato. Fu ingaggiata perfino una torma di ragazzini per inscenare i giochi a piedi nudi nei prati di voi che restate. La ballata – se andiamo avanti così chissà come si farà se continuano a costruire le case e non lasciano l’erba! -  divenne poi un hit e fu cantata a memoria da milioni di italiani e non solo, nonostante l’infelice esordio a Sanremo dove era stata bocciata. Ahi poco lungimirante critica, ostile alla magia della banalità nazionalpopolare delle vite di milioni di persone! Il video si vede oggi su Youtube e inizia con una ripresa dall’ultimo piano della casa dove abitavo. 

Il video originale di Celentano “Il ragazzo della via Gluck” al Gallaratese https://www.youtube.com/watch?v=_sYDfESbJAY

Mancava solo il treno uà uà, il cui rumore andò campionato altrove, ma tutto il resto era vero: i prati e la casa in mezzo al verde circondata dai palazzoni incombenti. Che avanzavano e s’innalzavano preceduti da gru, cantieri e strade semisterrate dove ancora transumavano liberamente pastori con asini e pecore, con pozzanghere oceaniche e stagni improvvisati dove si rifugiavano rane a bizzeffe. Li vedevano crescere i nativi: le mondine, i contadini e i cacciatori di Trenno, il piccolo borgo adiacente, i “campari” (gli addetti alle rogge: un contadino terribile ma simpatico di Trenno si chiamava proprio così). Fu uno scontro impari. Contadine imbufalite e scarmigliate uscivano da cadenti cascine superstiti starnazzando contro chi le derubava del cicorino e di altri prodotti di orti residuali di pura sopravvivenza, non certo glam come gli odierni orti urbani. Ruderi agresti erano luoghi di eccitanti giochi esplorativi dei ragazzini immigrati e rifugio dei barbùn che trovavano un tetto per qualche mese fino all’arrivo della prossima ruspa.

La convivenza fra gli sparuti indigeni e i colonizzatori fu comunque di breve durata. Senza dichiarazione di guerra, trattati o scontri i primi si arresero e svanirono come una qualsiasi tribù indiana, senza neanche riserve a confinarli. Evaporati. Con qualche lodevole eccezione, fra il Galla e Trenno le cascine si svuotarono o cambiarono destinazione. La Melghera fu sgombrata dopo lunga resistenza degli abitanti sfrattati dagli sceriffi dell’ex Feudoligresti, fra risaie floride lasciate andare in malora per costruirci altri metri cubi. La Campi resiste come bella fattoria fra le case, meta di ecoturismo urbano e vittima solo in questi ultimi anni di attigui ecomostraggi che le fanno ombra, colpi di coda della speculazione politically correct delle pseudo-cooperativesociali (“Vivere Trenno”, il nome dell’augusto nuovo maniero dalla cui cime la vista spazia fino all’inceneritore di Figino sopravvolando risaie e boschi). La Bellaria, nel Parco di Trenno, abitata un tempo dal succitato Campari, è divenuta sede di meritorie associazioni per i diversamente abili. Altre cascine di Trenno sopravvivono ristrutturate come abitazioni; è abbandonata la Belgioioso, dietro il club sportivo che sorge fra Trenno e la via Novara: v’era un fontanile, ovviamente in secca da decenni e decenni. La Cottica, verso lo stadio, solo ora è in recupero.

Arriva la “civiltà”

Ben presto, passato Celentano, sparirono le stradine in terra battuta verso campi sconosciuti mete di vagabondaggi in bicicletta. I bambini smisero di simulare avventure nei cantieri delle case in costruzione per il gusto adrenalinico di essere inseguiti da muratori bercianti in lingue sconosciute, e  rinunciarono a portare girini nella vasca da bagno al settimo piano. I pastori cominciarono a tenersi alla larga. La gente smise di raccogliere l’insalata matta, il giallo tarassaco che punteggiava i prati, cosa che facevano più per nostalgia della campagna dei nonni che per nutrirsi davvero. Gli adulti presi dal lavoro ebbero in premio perfino scuole, baretti, chiesette in stile funzionale e centri sociali dove parcheggiare figli, mogli, parenti e anziani. Tutto ciò battagliando duramente per ottenere i grandi avanzamenti promessi e finalmente mantenuti dopo circa un quindicennio: il Centro Commerciale e annesso Centro Civico Polivalente! La Posta! L’Anagrafe! Il Supermercato! La Biblioteca! Meraviglie prima ignote in loco, la cui ricerca richiedeva spostamenti penosi verso la Fascia intermedia lungo i tratturi.

Avvennero anche altri straordinari fatti, come la costruzione dell’iconico “Monte Amiata”, avveniristico simil-residence arzigogolato, che divenne rinomato nel mondo per l’interessante architettura. Arditamente incistato fra le case popolari in un esperimento audace, venne però presto occupato da chi non riusciva neanche ad avere case popolari, in una delle epiche battaglie di quei tempi.

Ma soprattutto arrivò la Metropolitana a cambiare completamente la vita. Dismessa la tradotta, ora si andava in centro e ovunque in un battibaleno. Da quel momento l’esistenza fu come acquietata, gli eroici pionieri si rilassarono e si sentirono parte di un consesso umano, non dovevano più fare cerchio con i carri contro i bisonti e gli Sioux. Ora sono attempati, i capelli si sono ingrigiti e imbiancati, i figli se ne sono andati, è stata risolta anche la piaga dello spaccio nelle zone verdi contigue (i parchi di Trenno e della Cave), le televisioni a colori dai molti canali hanno riempito i pomeriggi e le sere prima impiegati altrimenti, i cellulari poi hanno consentito comunicazioni istantanee facendo svanire ogni aura segreta e i rischi di perdersi in qualche buco nero. È un quartiere verde, pacifico e civile come pochi nella periferia di Milano, dalla socialità esemplare rispetto ad altri storici agglomerati periferici. Forse proprio perché fu costruito ex novo dal nulla e popolato da semi-milanesi già temprati. Attento all’ambiente, ha una storia di manifestazioni e partecipazione, come il parco Pertini salvato e piantumato e quelli dell’epoca dell’Expo, quando si decise sciaguratamente di sfregiare i parchi summenzionati con un canale di scolo, pomposamente venduto come “nuovi navigli” per vincere la gara dell’esposizione universale. I “no canal” locali presero l’ascia di guerra e battagliarono per anni rumorosamente per salvare il verde. Le ruspe infine si fermarono, anche per via dei distastri finanziari e giudiziari dell’Expo, e ripianarono i buchi fatti inutilmente.   

Ma torniamo a quegli anni pre-Bonola e pre-MM. Chi non ci abitava e restava nel perimetro sicuro della circonvallazione interna (e financo di quella esterna), nelle case solide e signorili dell’area fortificata, al di qua del fossato, ignorava la stessa esistenza di tutto ciò. Vedeva scorrere queste neocase-totem come strane quinte solo quando si avviava lungo l’itinerario verso i Laghi, dopo il quartiere modello QT8 e la Montagnetta, sfiorandoli con lo sguardo per un attimo e potendo così dedicarsi brevemente, prima di arrivare in vista della seconda casa o della meta del weekend, alla meditazione sui misteri dell’universo. 

Chi invece ci abitava, e molti erano giovani lì trapiantati da qualche mese, aveva da scarpinare per incontrare qualcosa di significativo, doveva da lavorare di fantasia. Il Gallaratesopolese che avesse un minimo di senso della comunità si dava da fare per tessere relazioni fra perfetti sconosciuti, in un’istintiva solidarietà, maturata facilmente quando si doveva andare a combattere per obiettivi minimi: che riaprisse la centrale termica in inverno, che si asfaltassero strade ridotte a gruviera e così via, che ci fossero scuole a sufficienza e locali dove incontrarsi. Si continuava a sconfinare svariando fra piazzale Accursio, Baggio, piazzale Lotto, spingendosi fino ad Amendola o a Quarto Oggiaro in cerca di saloon aperti, volti riconoscibili e amici originari, ma si cominciava anche a parlare con i vicini di casa.

Gli abitanti e i loro visitatori si perdevano però ancora fra i dedali delle vie chiamate con gli stessi, quasi identici nomi (via Ugo Ojetti angolo via Ugo Betti) lungo chilometri di palazzoni tutti uguali. Pare fosse un espediente escogitato da qualche benintenzionato funzionario che intendeva così proteggere la popolazione dalle visite degli alloctoni, impedire ritorni a casa prima di Carosello e ostacolare le ricognizioni aeree dell’Impero del Male; tuttavia causò sgradevoli effetti collaterali e frequenti sconfinamenti inopinati nella landa esterna fino a posti ancora più esotici nei pressi dell’attuale tangenziale. Non esistevano navigatori né connessioni, è bene ricordarlo. E oltre il Galla c’era la prateria.

La “nuova frontiera” verde

Ci si pose presto il problema: che ne facciamo di quei campi a un chilometro dal Galla, in direzione West verso l’altro villaggio semirurale all’estremità, denominato Figino, oltre il Parco di Trenno? Bisogna sapere infatti che il quartiere neonato aveva tratto in sorte alcuni effetti collaterali benefici dalle vicende belliche. Oltre alla discarica di macerie che divenne la Montagnetta con il suo verde, c’era un altro parco, cosa rara in periferia, a Trenno. Negli anni Settanta aveva ancora alberelli gracili e provvisori, piantati fra prati lasciati tali in virtù della fascia di rispetto dovuta al memoriale dei vincitori della Seconda  Guerra Mondiale, il camposanto degli Inglesi. Quel parco era dovuto alla vittoria degli Alleati, dunque, e non certo alla lungimiranza degli amministratori, che già ai tempi erano invischiati nel primitivo Rito Ambrosiano della speculazione edilizia pre-Tangentopoli. Il parco di Trenno confina a Est con il galoppatoio di San Siro, altra area verde, ed era allora l’ultimo confine prima dei campi incolti. Oltre il parco, ecco infatti l’estensione del terreno sgombro e abbandonato, con al centro una cascina da poco disabitata occupata da qualche senzatetto che dormiva sul fieno: las cascina San Romano. La zona era meta di tribù autoctone seminomadi di cacciatori-raccoglitori di sfrodo, di vagabondi oziosi, di coraggiosi camporellisti, nonché ideale scenario per il consumo di droghe naturali o chimiche anche perché ricordava nella morfologia le steppe del Wyoming. Al di fuori dei confini del conosciuto, si ignorava chi vi dettasse legge. L’edificio più importante nelle vicinanze era lo Stadio di San Siro, che rendeva lo stradone limitrofo della via Novara la sede di immani e memorabili ingorghi automobilistici prima che fosse possibile vedere le partite in tv. Dal Galla e dai dintorni si potevano udire con apprensione mista a curiosità le urla dei centomila e il rombo delle autovetture infognate per ore, strombazzanti con le bandiere dei vincitori o meste per le sconfitte.  

Quella landa fu individuata presto dagli urbanisti come possibile nuova zona d’espansione nel naturale moto del Destino Manifesto della crescita della città verso la saturazione degli spazi in ottemperanza alle credenze dominanti delle Democratiche Esigenze Demografiche e Occupazionali e alla Sacra e Originaria Pratica Speculativa di Obbedienza Certa e Rito Antico e Accettato. Incredibile a dirsi, fu però adocchiata anche da alcuni filantropi, conservazionisti ed ecologisti ante litteram. Pochi benestanti umanisti; urbanisti non convenzionali; popolani che respiravano la nafta degli impianti di riscaldamento allora in uso che si depositava in particelle nerastre sui balconi, sulle camicie e nei polmoni e operai che ingerivano quantità di variopinti effluvi tossici; ragazzotti ignari dei vantaggi della modernità a venire. Tale era la compagnia eterogenea che animava le prime timide campagne ambientaliste: contesse illuminate con casa in pieno centro e tenute agricole a distanza di sicurezza, avvocati dediti alle cause perse, sindacalisti periferici, agronomi eccentrici, naturalisti illusi o nostalgici, paesaggisti alternativi che ambivano di riprodurre le foreste suburbane parigine o londinesi, studentelli fuori dai giri del mainstream politico extraparlamentare e accusati pertanto dagli ortodossi di essere dei freaks (parlo per me). Alcuni di loro si aggiravano in stivali infangati con binocoli,  macchine fotografiche e taccuini fra le sterpaglie sognando cose inesistenti. Trasognati e innocui, come il Marcovaldo di Calvino seguivano tracce minime, foglie disperse da refoli di vento immaginando ciò che aveva preceduto l’agricoltura del mais e dei foraggi e le espansioni edilizie. Non si sa a chi di loro apparvero nella fantasia i boschi di cui aveva narrato Stendhal, che nell’Ottocento aveva descritti circondare Milano; luoghi di malviventi in agguato per assalire le carrozze degli urbanizzati. 

Per farla breve, in quei primi anni Settanta alcuni audaci sfidarono il Comune di Milano: dateci quel terreno, ne faremo un bosco. Audaci ma non sconsiderati, sostenuti com’erano da associazioni prestigiose per la tutela ambientale e dei beni culturali (Italia Nostra), ammanicati con avvocati democristiani di grido e con l’allora proprietaria del Corriere della Sera pre-Montedison e pre-P2, quotidiano che ai tempi ospitava chissà come in prima pagina filippiche antinucleari e antiinquinamento e articoli di poeti comunisti e gay. Un poco snob e molto fuori dalle righe, furono ferocemente contestati come ingenui passatisti e piccolo-borghesi o borghesi tout court dai consigli di zona di sinistra che paventavano l’espropriazione di uno spazio pubblico per oscure manovre reazionarie (quella landa era del Comune, doveva restare pubblica; Italia Nostra venne definita “Italia Loro” dagli oppositori del progetto del bosco, numerosi e agguerriti). Ostacoli ce n’erano a iosa: in primis i potenti metrocubisti del costruibile che tramano sempre e contano sullo sfascio agricolo per irrompere, smuovere terra e costruire. Poi gli aereomodellisti che occupavano i pratoni rumoreggiando; i cacciatori che sparavano a qualche rincitrullito fagiano appena liberato all’uopo, scalciato via perché appena uscito dall’allevamento e felice di incontrare gli umani; alcuni contadini contigui che chissà perché ora dicevano di voler mettere a frutto l’erba del vicino. Fatto sta che la pattuglia protoambientalista prese d’infilata tutti quanti e si fece assegnare il terreno in gestione. 

 Il laghetto del Boscoincittà

Un lavoro secondo natura

Dapprima vi piantò vicino a Figino e curò in vivaio alberelli forniti dalla Forestale (pace all’anima sua) e dall’Azienda Regionale Foreste, poi per anni li trapiantò nei campi, irrigò, zappò, concimò, rese agibile la vetusta cascina San Romano, fece il fieno pulendo fra gli alberi appena messi a dimora. Tutto ciò con l’obiettivo di fare un bosco, per il bene della città e dei vicini quartieri, naturalmente. Per accontentare Celentano lasciando l’erba. Portando a sostegno ponderosi e autorevoli studi urbanistici ed esempi di vere e grandi e metropoli europee, i quali dimostravano come per una grande città moderna la migliore destinazione del terreno fra l’uno e l’altro dei quartieri-satellite fosse proprio quella del bosco. A differenza dell’agricoltura residua degradata, il bosco migliora l’ambiente, l’aria, la socialità e la salute fisica degli abitanti. Non è una vergogna, il bosco, non è terzo mondo, come devono pensare i nostri acuti pianificatori: basta aggirarsi nelle modernissime Monaco di Baviera, Stoccarda o Amburgo, dove sui può camminare per ore nel verde restando a fianco della città; a Londra dalle colline del parco di Hampstead si vede la metropoli dall’alto e vi si cammina per giornate intere rientrando veloci alle fermate del Tube; ad Amsterdam appena giri l’angolo trovi un parco dove puoi andare per ore in canoa su un lago immerso fra gli alberi. Eccetera. È un avanzamento, il bosco, non un residuo. È tutta salute.

 La cascina San Romano, al centro di Boscoincittà

Il bosco in città doveva anche essere un modello: non un parco con le stradine e le panchinette ordinate, niente aiuole e filari "ordinati" ma una semi-giungla esclusivamente di piante autoctone. E via allora con gli aceri, le querce, i carpini, i salici mentre i vecchi pioppi che allignavano da tempo lungo le rogge in triste attesa della motosega vennero risparmiati e rifocillati. E sotto con gli arbusti, che nel bosco e per la fauna sono importanti quanto gli alberi ad alto fusto. Furono invece fatte sgombrare a suon di machete le invadenti immigrate extracomunitarie robinie, giunte dall’America, che prosperavano a spese degli alberi indigeni. 

Dal 1974 ci fu chi ci passò quasi tutti i fine settimana a lavorare gratis presso questo posto, divertendosi a sudare e muovere le mani e i piedi nel fango. Nei primi anni si litigò molto con politici locali, cacciatori, teppisti, spacciatori e magnaccia, contadini ostili. Spesso occorreva andare a controllare che i villici non rubassero l’acqua destinata all’irrigazione degli alberi deviandola sui loro campi: in piena notte, armati di badile per difendersi dalle imboscate. Qualche incendio doloso di origine ufficialmente ignota ma riferibile ai riottosi confinanti fu da rintuzzare con catene umane di portatori d’acqua. A onor del vero, altri agricoltori delle vicine cascine aiutavano in modo intenso, efficace e gratuito, fornendo trattori e macchine agricole, comprando il fieno e dando dritte di esperienza. I nomi non li ricordo tutti ma c’era quello di Figino, quello di Sella Nuova, il terribile ma simpatico Campari di Trenno. Fra i volontari c’erano frotte di artigiani in pensione o meno che venivano a divertirsi a piantare ma anche a piallare, tagliare, segare per rimettere in piedi la cascina e far crescere le piante. Fu un duro lavoro ma ricco di convivialità, con canzoni in dialetto dei vicini provenienti da Quinto Romano e campi di lavoro internazionali con ragazzi da tutto il mondo.   

Un risvolto ignoto ai più e fuori dalle storie ufficiali fu quando arrivò l’Eni a scavare alla ricerca di petrolio, sbancando aree già piantumate. Per carità di patria l’associazione che gestiva il Bosco lasciò fare, anche perché non poteva opporsi, il terreno era del Comune. La crisi petrolifera appena passata spingeva a questi insani gesti. I cercatori giustamente non trovarono nulla, come in tutta la pianura padana, e se ne andarono con le trivelle fra le gambe inseguiti dai lazzi e dagli urrà dei volontari. Alcuni di loro, in un impeto di follia giovanile, senza l’autorizzazione dei seri e posati vertici della suddetta rispettabile associazione e alla sua insaputa, avevano perfino inscenato un rito sciamanico con l’intento ridicolo e retrivo di far dissolvere quei tralicci simboli di Progresso. Come li guardavano dall’altro gli operai asserragliati sulle trivelle, senza capirci nulla! Un assedio da film Western, puro e delirante situazionismo in epoca di indiani metropolitani, inane quanto infine vittorioso al di là dei suoi meriti. Ovviamente dell’evento non esistono foto né filmati e secondo alcuni è una pura invenzione narrativa dell’autore di questo scritto. Ok, non citerò testimoni solo perché nel frattempo siamo diventati quasi tutti seri e rispettabili padri e madri di famiglia. 

Il sistema dei parchi dell’Ovest Milano

Appunto, suvvia! Siamo seri, ora. Il Boscoincittà è stato un modo per rendere Milano più bella, sana, completa, umana e selvatica insieme. Un’impresa per onorare le sue radici silvane in modo ben più duraturo, salutare e produttivo dei contigui e postmoderni fast-tree dell’Expo, effimeri e dispendiosi.  Artifici già gravati ancora prima di nascere dai cascami di plurimi avvisi di garanzia e citazioni per concorsi esterni e di debiti di cui più nessuno osa parlare ma che si manifestano in tagli sempre più duri ai servizi sociali. Nella Milano che “non si ferma” mai, in pochi anni le code per mangiare si sono spostate dai padiglioni al Pane Quotidiano, complice anche il Covid-19.

Il bosco ha fatto da esempio e figliato. Negli anni seguenti una buona parte del Parco Nord venne realizzata seguendo gli stessi principi: alcuni spazi integralmente lasciati alla natura con stradine appena tracciate, radure, piante autoctone e spontanee. Nei 110 ettari del Boscoincittà non ci sono bar o ristoranti, eventi di massa o spettacoli ma socialità discreta e diffusa ed educazione ambientale per le scuole.  Anche ora che viene raggiunto da migliaia di persone nei weekend è pulito, ordinato e tranquillo, profetica meta turistica di prossimità a kilometro 0. Lo stesso bosco divenne un vivaio per decine e decine di altri boschetti che si ispirarono ad esso in tutta la regione, ricevendone direttamente guida, esperienza, lavoro e alberi. Il metodo di coinvolgimento dei volontari e dei cittadini e lo staff del bosco sono stati impiegati dal 1997 anche per far rivivere il vicino Parco delle Cave di Baggio in un’area abbandonata, prima degradata e ridotta a piazza di spaccio. Il Parco delle Cave in seguito venne ripreso in gestione dal Comune, in modo pasticciato, escludendo Italia Nostra e riportando la cura del verde agli appalti con i privati che gestiscono il verde a Milano. Con criteri economicisti e poco naturalistici e sociali, ma non per questo in modo più efficiente. Anzi. 

Oggi comunque è uno dei parchi più belli e grandi di Milano, 135 ettari con spazi alternati di prati, coltivazioni e alberi attorno alle quattro cave, ovvero laghetti di origine estrattiva. Una di esse è pubblica e aperta a tutti, le altre ; la cava Ongari di recente è stata ripulita e rinaturalizzata sempre dallo staff del Centro di Forestazione Urbana del Boscoincittà, che vi ha tracciato un sentiero percorribile (la cava è cintata e visitabile in alcuni giorni della settimana). Nel parco c’è anche la storica cascina Villa Linterno, dove soggiornò Petrarca, centro di iniziative culturali. Molto amato e visitato, è meta da tanti anni di lucciolate, ma a volte sembra sul limite del sovraffollamento e soprattutto non lascia tranquilli l’attuale gestione poco efficiente. Gli ecologisti e gli amanti della natura sperano che sia collegato al verde salvato nella confinante ex-Piazza d’Armi (di cui ho parlato qui>>  http://bit.ly/2N3ObuT), estendendo ancora verso il centro della città il cuneo verde che fa da propaggine urbana al corridoio ecologico che arriva dal Ticino attraverso il parco del Roccolo, l’oasi di Vanzago e  il parco dei Fontanili di Rho (ne ho parlato qui>> http://bit.ly/307QmAW).  

 La Cava Ongari nel Parco delle Cave

Il nucleo Boscoincittà-Parco delle Cave ha trainato nuove aree verdi che rendono la zona sempre più bella: una fascia già agricola verso Trenno, attorno alla cascina Belgioioso, è stata assegnata all’espansione del bosco; il nuovissimo Fossone lungo la via Novara: il segmento di parco che collega il Parco delle Cave al Boscoincittà e al Parco di Trenno attorno alla cascina Caldera, ancora attiva e popolata da animali da cortile e cavalli, che lavora ancora le marcite. A corollario, i molti orti urbani realizzati a margine del bosco sia verso Trenno sia verso Figino e postazioni di apicoltura urbana.

Così oggi, là fra Trenno, Figino, Quinto Romano e Quarto Cagnino, lungo la via Novara, a due passi dal Galla e da Baggio, c’è un vasto e articolato sistema di parchi naturali, unico a Milano città (il Parco Nord invece si estende sul territorio di più comuni), che ha propaggini nel Parco di Trenno (oggi dedicato ad Aldo Aniasi) e nel Monte Stella. Una fetta di città dove si può pedalare o camminare per ore nel verde a un chilometro dalla metropolitana, vedendo i palazzi a distanza fra una macchia e l’altra ma proprio per questo respirando in modo diverso. Ci sono orti ordinati e legali, la cascina San Romano è sede di foresterie per studenti e naturalisti, di feste autogestite aperte a chiunque voglia passare tempo in compagnia conviviale sotto i portici esterni alla cascina dietro un contributo volontario all’associazione: vero miracolo nella Milano degli eventi cool e dei danee. Al Boscoincittà ci sono un laghetto scavato ex-novo divenuto ritrovo di uccelli di passaggio o stanziali, giardini d’acqua e altri gioiellini paesaggistici, animali selvatici non più oggetto di sparatorie: aironi, falchetti, gufi, civette, allocchi, conigli, scoiattoli e volpi e molti altri ancora. Primo esempio di forestazione urbana in Italia, realizzato con costi bassi e con il volontariato, è stato studiato fino in Giappone come esempio virtuoso di riqualificazione ambientale e sociale. Se mai fosse possibile, ci vorrebbe un bello studio sulle spese sanitarie risparmiate grazie a questo verde.

La radura vicino alla cascina San Romano, Boscoincittà

Quello del West è un sistema di parchi naturali per ora al riparo dalle distruzioni e dagli snaturamenti che minacciano sempre tutte le altre aree verdi periurbane della metropoli. Le minacce di aggressione ora è sulle aree contigue delle scuderie (già rase al suolo) e dello stadio. Purtroppo, dopo gli anni iniziali e oggi che è istituzionalizzato e dipende dalle finanze del Comune, il Boscoincittà viene spesso usato come foglia di fico dall’amministrazione pubblica per nascondere le brutture invece che come modello da seguire. Come un fiore all’occhiello invece che come esempio. In particolare, ce ne si dimentica quando si pensa di “riordinare” e addomesticare posti come il Ticinello, Piazza d’Armi, la Goccia alla Bovisa. Se i boschi fanno così bene, perché stravolgerli e violentarli invece che conservarli e valorizzarli? Misteri della miope tecnocrazia che oggi governa e che lascia costruire anche davanti al Boscoincittà un ecomostro, a Trenno; che intende fare lo stesso davanti al Parco delle Cave, a Piazza d’Armi, alla Bovisa. Coazione a ripetere, perseverare diabolico: tagliano alberi perfino per fare piste ciclabili. Non è un problema solo milanese, s’intende: è stata abolita la Forestale che proteggeva gli alberi (non sempre a sufficienza) e, ultima trovata, li bruciamo ovunque allegramente sempre di più per fare “biomasse”, con ogni pretesto. Assurdo, ma è quello che succede ogni giorno. Sembra che la vita spontanea e naturale faccia paura. Gli alberi ricresceranno, tranquilli; quanto a noi, speriamo di cavarcela. Ma senza gli alberi non è facile. Di luoghi deserti ce ne sono già troppi e la gente ci vive male e ne scappa. Dove siamo, abbiamo la fortuna di avere acque, piante e animali. Teniamoceli stretti. Altro che grattacieli e nuovo asfalto. Il futuro, invece, è proteggere questi alberi, collegare i parchi fra loro per consentire agli animali selvatici di vivere e agli umani di camminare. Altri tentativi del genere sono ipotizzati per ampliare e collegare ai parchi vicini sia il Parco Nord sia il parco Forlanini, a Est. Ne parlerò prossimamente.  

 Il nuovo "Fossone", lungo la via Novara

Nota biografica, quando ci vuole ci vuole

Tanto l’avrete già capito. Già prima dell’età della ragione mi ero imboscato in quei luoghi: ai tempi della naja si diceva così di chi si nascondeva per non fare il militare. Io appunto svolsi là il servizio civile da obiettore di coscienza, dopo anni da volontario dal primo giorno del vivaio, marzo 1974. Ci andavo in bicicletta o a piedi dal Gallaratese, o in bus dalla zona Monteceneri dove ero andato poi a vivere. Smisi di studiare all’università per piantare alberi, guidai il trattore, vagai nella nebbia in inverno con il badile a volte gridando per avvisare i cacciatori della mia presenza e restare incolume, feci il fieno fino a prendermi il relativo raffreddore allergico, riparai tetti, organizzai feste, accompagnai i bambini delle scuole a piantumare, preparai cartelli, litigai coi legnosi responsabili dei lavori - e come avrebbero potuto essere altrimenti, visto ciò a cui si dedicavano?  

Da tanti anni vivo dalla parte opposta della città, ma mi piace tornare qui ogni tanto, da solo o in compagnia. Per sentire che cosa hanno da raccontarmi, adesso, quegli alberi che maneggiammo, prendemmo dai vivai, piantammo, ripulimmo dalle erbacce e bagnammo. Adesso sono molto più alti e grandi di me; mi aiutano a sentire questa città come un luogo dove si può anche vivere, non solo funzionare. Mi hanno fatto sentire cos’è davvero un albero: è la nostra vita, che nasce, cresce e si espande nel tempo. 

Boscoincittà

Ingresso principale da via Novara (all’altezza di Quinto Romano)

Altri ingressi da Trenno e da Figino. Da Figino si può visitare il “Giardino d’acqua”.

Sempre aperto.

Info e attività ambientali ed educative: www.boscoincitta.it

Centro Forestazione Urbana www.cfu.it

 Mappa del Boscoincittà

Fossone

Via Novara, all’altezza di via Caldera. Sempre aperto.

Pagina facebookL'area umida "il Fossone" e cava Ongari

https://www.facebook.com/groups/555305561671777

Parco delle Cave

Vari ingressi (il principale da via Forze Armate).

Sempre aperto tranne alcune cave affidate ad associazioni. 

Info: www.parcodellecave.it

Cava Ongari

Aperta lunedì, martedì e domenica mattinadalle 9.00 alle 12.00. Info: www.cavaongari.it, Questo indirizzo email è protetto dagli spambots. E' necessario abilitare JavaScript per vederlo. , tel. 02.4522401