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UN FUTURO DIGITAL FREE

Scritto da Stefano Fusi. Postato in Non categorizzato

RETE, SMARTPHONE E TABLET AI BAMBINI E AI RAGAZZI?

LA PROPOSTA DI UN FUTURO “DIGITAL FREE”: RESPONSABILITÀ, COMPETENZA E CONSAPEVOLEZZA PER CONOSCERE E PADRONEGGIARE I MEZZI DIGITALI

Ingegnere, 59 anni, Giorgio Capellani ha lavorato per anni con ruoli dirigenziali per IBM e HP; ora insegna materie scientifiche nelle scuole Waldorf a Milano.  Poiché si è occupato professionalmente di personal computer, tablet e tecnologia digitale, sa di cosa si parla quando ci si occupa di questi strumenti. Da alcuni anni, vista la loro pervasività, mette sull’avviso genitori ed educatori: occorre conoscerli meglio per padroneggiarli. Non li rifiuta: anzi, li vede come una straordinaria occasione per un salto nel nostro livello di coscienza. Ne parla nei suoi incontri e nel suo libro “Crescere nell’era digitale”, appena pubblicato con Edilibri (Milano, 2018)>>leggi qui la scheda del libro. Lo incontriamo in occasione di uno di questi incontri, rivolto ai genitori di un piccolo asilo privato in zona Darsena. Una ventina di genitori molto interessati, attenti e partecipi. 

Giorgio Capellani

Giorgio Capellani, la si potrebbe accomunare a quegli “ingegneri pentiti” della Silicon Valley, che producono i device ma ne limitano fortemente l’uso ai figli, proprio perché ne conoscono gli “effetti collaterali”?

In un certo senso. Non sono contrario alla tecnologia, tutt’altro, ma gli abusi vanno conosciuti e i device tenuti sotto controllo per evitare danni anche gravi. Io non producevo, mi occupavo della vendita e del marketing. Gli strumenti in sé sono utili e prezioni. Ma ora abbiamo superato alcuni limiti. Ragazzi e bambini sono lasciati soli con smartphone e tablet. La frequentazione dei dispositivi e della rete è sempre più precoce. Si danno per acquisite le capacità di gestirli; i genitori non intervengono, non se ne occupano. Non c’è un’ alfabetizzazione e ancor meno  un’educazione adeguata all’uso. Spesso i genitori si trovano sorpresi e spiazzati: “se non ha il cellulare dà i numeri”, “ho  provato a togliergli i videogiochi perché mi ero accorto che cominciavano a diventare una presenza ingombrante e mio figlio è entrato in crisi” sono frasi comuni.  

Che cosa chiedono i genitori, negli incontri che conduci nelle scuole?  e gli insegnanti?

La domanda è: come possiamo gestire il fenomeno? Spesso la prima domanda che i genitori fanno a insegnanti, pedagoghi e psicopedagogisti è: “Come faccio a gestire lo smartphone?”. La spiegazione è semplice: gli stessi genitori sono assolutamente impreparati. Quando scoprono il contenuto di videogiochi o video online, restano a bocca aperta. Quando vedono l’irrequietezza dei bambini, che sembrano “drogati” in crisi d’astinenza quando li si toglie loro, non sanno che fare. Perciò prima di tutto occorre conoscere di cosa stiamo parlando.

Bisogna conoscere:

-           il dispositivo

-          in quale scenario è inserito

-          quali sono i contenuti

-          quali sono gli effetti.

Quindi occorre assumerci responsabilità stabilendo delle regole basate però sulla conoscenza. Alcune regole di semplice buon senso: dare questi strumenti a un bambino è come fargli correre una maratona o dargli un’auto da guidare.

L’idea dunque è quella di vietare l’uso degli smartphone e dei tablet ai bambini e ai ragazzini?

No, non si tratta di vietare: niente moralismi, sarebbero controproducenti oltre che anacronistici. La tecnologia sarà sempre di più presente nella nostra vita (assistenti digitali, realtà virtuale…): bisogna governarla, non si può abolirla né vietarla per decreto. Però ai bambini piccoli, che hanno meno di 7 anni, non va dato un cellulare personale né va affidato un tablet senza controllo. Non è solo questione di contenuti: i mezzi non sono adatti a loro, che sono in formazione; riducono il loro sviluppo neurologico e psichico sostituendo realtà virtuali al vero apprendimento, che è fatto di relazione, movimento, sensorialità, esperienza diretta.  Non sempre virtuale è virtuoso!

Quindi si tratta di limitare, gestire. Come?

Innanzitutto bisogna conoscere. Studiare ciò che si dà loro in mano. Conoscere l’uso dei social network, dei vari canali attraverso i quali poi i minori interagiscono, valutare i rischi e le opportunità. Imparare a usarli, noi adulti per primi. Dare un esempio positivo, limitandone e controllandone l’uso per noi stessi adulti. Stabilire in famiglia orari e luoghi in cui sono banditi, fasce d’età, ambiti adatti. Bisogna trovare una modalità condivisa di utilizzo degli strumenti. Nel libro propongo di elaborare una guida per l’uso, sotto forma di decalogo per il quale introduco alcuni spunti. Ma non esistono facili ricette precostituite. È un lavoro di riflessione comune da avviare.  La parola chiave è responsabilità: i genitori e gli educatori devono rendersi conto del fatto che i bambini e gli adolescenti non vanno lasciati soli con un potenziale immenso nelle mani: nel bene e nel male, gli strumenti digitali hanno un impatto enorme. Non vanno demonizzati ma occorre sapere che per la loro natura, se non vengono gestiti bene, creano un condizionamento e instaurano dipendenza: non c’è solo quella da sostanze, dal gioco, dal sesso e da scende di violenza, ma anche quella da abitudini. Il meccanismo neurologico è lo stesso: si instaura un loop dopaminergico, ovvero si ricerca sempre più il piacere dato dalla soddisfazione immediata di alcuni bisogni.  L’assuefazione fa il resto, riducendo le capacità di distinguere fra reale e virtuale.  Sono due polarità che possono essere padroneggiate da un adulto che ha esperienze effettive di relazione, apprendimento e lavoro e sa distinguere: non da bambini o adolescenti che vengono messi subito allo sbaraglio davanti a videogiochi o contenuti “fake” senza possibilità di discriminare. 

La proposta quindi non è quella di rifiutare ma di arginare e incanalare.

Si. Occorre che siamo liberi, liberi di usare o meno, liberi di scegliere come usare la tecnologia digitale. Se dovessimo pensare a uno slogan, direi che dobbiamo essere Digital free: non significa liberi dal digitale, che è impossibile,  ma liberi nel digitale. Che ha anche aspetti positivi, purché impariamo a gestirlo. Il coltello non va vietato perché qualcuno lo usa per uccidere. Lo stesso vale per l’automobile. Per la patente si deve avere 18 anni, seguire un corso teorico,  lezioni pratiche di guida, fare un esame di stato. Per la rete, gli smartphone, i tablet e i computer non c’è nulla di equivalente, tranne qualcosa a livello aziendale. Allora genitori, insegnanti ed educatori si trovano alle prese con qualcosa di altrettanto pericoloso potenzialmente, senza una formazione adeguata. E la velocità con cui si sta passando a una vita strettamente intrecciata con il mondo virtuale impone, ora, una riflessione urgente.

Anni fa un libro, “I no che aiutano a crescere”, accompagnò l’inizio della riflessione sulla latitanza dei genitori:ora servono dei “no al cellulare” che aiutino a crescere?

Certo: dei no circostanziati, motivati, non generici, autorevoli. Non si può delegare al bambino responsabilità che non sono sue, che non corrispondono al suo stadio di sviluppo. Non si può entrare in una dialettica, il bambino non ha gli strumenti. Un bambino delle elementari non è un piccolo adulto. Oggi bombardiamo la sfera sensibile dei bambini e adolescenti con delle supersollecitazioni che non sono in grado di gestire. Il vero punto è che c’è l’invasione della sfera dell’infanzia.È fondamentale tenere conto delle specificità insite nelle varie età:  il problema è che i cellulari si danno in mano ai bambini delle elementari. L’elemento decisivo è l’educazione, a casa e a scuola. Serve una sana autorità: a un bambino delle elementari il cellulare non si dà. Ogni età ha le sue tappe evolutive. Un bambino non è in grado di assumersi la responsabilità dal punto di vista neurofisiologico, non gli è propria, lo sviluppo della corteccia prefrontale, sede delle funzioni esecutive, nel bambino preadolescente è profondamente immaturo. Fino ai 7 anni, dunque, no a cellulari e tablet.  Va evitato anche un uso massiccio della televisione. Un bambino ha bisogno d’altro: il gioco libero è il suo strumento evolutivo più importante.  Dai 14 anni si può cominciare ad avere coscienza di quello che si fa; nella scuola superiore si può pensare a proporre esperienze di programmazione, come supporto allo sviluppo del pensiero analitico.

I genitori e gli educatori sono in grado di intervenire?

Devono. Devono promuovere un uso intelligente, attento, consapevole e responsabile.Questa “invasionedigitale” è un’occasione di risveglio per noi adulti. Spesso genitori fanno gli struzzi, di fronte a ciò che accade. Ma sempre più genitori, invece, cominciano a porsi la questione. Se ne parla ovunque. Occorre trovare un approccio nuovo. Di fronte alla perdita di centralità dell’individuo occorre fermarsi e cercare di tornare protagonisti della propria vita. Purtroppo le grandi potenzialità dei mezzi hanno effetti collaterali. Siamo sempre meno capaci di concentrarci, di riflettere, di valutare la veridicità di ciò che è veicolato dai mezzi digitali. Campi cruciali della vita (apprendimento, violenza, sesso, convivenza civile) risentono pesantemente della strapotenza dei mezzi digitali, che espongono a modi e contenuti che non favoriscono la riflessione, la vera comunicazione e l’autocoscienza. Affidarsi solo ai mezzi digitali impoverisce le qualità umane naturali. C’è un analfabetismo di ritorno impressionante che influisce anche sulla sfera etico-sociale e su quella politica. È ora di provare a comprendere cosa sta succedendo.  Ci sono due rischi apparentemente opposti ma complementari: affrontare tutta la vita in modo superficiale, come facciamo con i contenuti dello smartphone e della rete, o rifiutare tutto in modo moralistico come luddisti (quelli che agli albori della rivoluzione industriale rifiutavano le macchine e le distruggevano, ndi) eliminando anche gli aspetti positivi della tecnologia. È questione di buon senso.

Quale ruolo può avere la scuola?

La maggior parte degli insegnanti si accorge della diminuita capacità di concentrazione dei ragazzi a scuola, della loro difficoltà a gestire il movimento e a stare fermi. Anche gli insegnanti hanno difficoltà a gestirli. Dal divieto di utilizzarli con il decalogo del precedente ministro Fedeli si passò a permettere un uso consapevole dello smartphone a scuola. Ma su questo va fatto un ragionamento.  I bambini sono già bombardati per otto ore al giorno dai mezzi digitali, ha senso consentire anche a scuola di ricorrervi? Qual è il limite di età? Io propendo per i 14 anni, il secondo settennio. Bisogna discuterne in modo informato. Va bene correre, ma con le scarpe adatte, non con gli scarponi da sci.

L’appello del libro quindi è alla riflessione e alla presa di responsabilità?

Si. Questa è la grande opportunità che ci offrono le tecnologie digitali: ci spingono a elevare il nostro livello di coscienza, quali genitori, educatori e persone. Il mio obiettivo è di offrire degli spunti di coscienza e fornire competenze. Questa epoca storica non prevede divieti o obblighi vincolanti per tutti, prevede che ciascuno di noi scelga liberamente e decida in autonomia. Il punto non è creare un movimento d’opinione contro la tecnologia digitale: il punto è creare momenti e spunti di risveglio per fornire agli individui – se ne hanno voglia, nelle modalità che ritengono più opportune – strumenti per fare delle scelte. È una motivazione pedagogica: occorre educare, facendo sì che l’individuo arrivi da sé a quella che è la migliore scelta per sé e per la società in cui vive. Stiamo riflettendo su come fare entrare l’alfabetizzazione digitale nel curriculum scolastico. I ragazzi dovrebbero sapere che cosa hanno in mano, guidati da adulti competenti e responsabili. Imparare, per esempio, che cosa sono e come si costruiscono l’hardware e il software; conoscere l’origine e gli obiettivi dei contenuti che trovano in rete (videogiochi e così via). Quando lo comprendono, possono evitare di cadere nelle trappole di un mercato che invece sembra non darsi regole.