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La Goccia alla Bovisa, il bosco che non dovrebbe esserci

Scritto da Stefano Fusi. Postato in Notizie

La Goccia alla Bovisa: il bosco che non ci dovrebbe essere, ma c’è ancora

Soggetto per film di fantascienza. Un classico. Quello che si addormenta (o si iberna, o torna da un viaggio spaziale), viaggia nel tempo e si ritrova nel futuro. Trent’anni dopo.

Location: dintorni della Bovisa. Fabbriche, gasometri, quartieri popolari, parchetti striminziti, uno dedicato a Giovanni Testori, che della zona scrisse. Il fabbricone, il Ponte della Ghisolfa, il sovrappasso sotto al quale ci sono angoli dove fu ambientato il del film di Luchino Visconti  Rocco e i suoi fratelli, ispirato proprio ai racconti di Testori. Immigrazione, emarginazione, degrado e via cantando. Baretti e cantieri, gasometri, ferrovie, strade che finivano in nulla oltre le quali altri quartieri di immigrazione ancora più remoti, i famosi dormitori o Coree, che s’espandono ben oltre la circonvallazione fino alle tangenziali.

Eppure andavo a scuola, sotto al ponte della Ghisolfa. Alle elementari, scuola Rinnovata Pizzigoni. Eroica donna, misconosciuta piccola Montessori, dopo la Prima Guerra Mondiale la Pizzigoni vedeva i bambini trapiantati in città deperire nel corpo e nell’animo. Non si sa come, fra mille difficoltà, riuscì a mettere in piedi una scuola periferica ma all’avanguardia per i tempi: aule aperte sul vasto giardino per poter vedere il verde e uscire ogni tanto senza passare dai corridoi, musica, didattica “alternativa”. Quando ci andai io, primi anni Sessanta, c’erano già classi miste maschi-femmine, inaudito ai tempi, orario prolungato con mensa nella scuola, la piscina, animali della fattoria. Un insegnante – ricordo il nome, professor Marmieri - era addetto all’agraria: con lui facevamo l’orto e il miele, una dolcezza incredibile, ci faceva assaggiare il miele appena fatto proprio lì, preso dalle arnie. Lo prendevamo con cucchiaini direttamente dal favo. Bimbi di città, potevamo però imparare qualcosa della natura. Ne avevamo ben bisogno. E ce la godevamo, alla faccia dei bimbi più centrali. Senza essere benestanti, avevamo questi privilegi, i genitori non ci avevano fra le scatole fino a metà pomeriggio e noi giocavamo molto all’aperto pur essendo a scuola. Tanto per dire: il motto della scuola era: “Scopo il vero, tempio la natura, metodo l’esperienza.” Ma restò unica, quella scuola, a propugnare quella che oggi viene definita Outdoor Education. Troppo alternativa. La Pizzigoni morì povera e sola in una RSA a Saronno, nel 1947. Pace alla sua anima. Quella scuola mi diede l’imprinting alla natura in città, e segnò la mia vita. Grazie.

Mentre ci andavo, il sovrastante ponte della Ghisolfa, il mitico cavalcavia Bacula che ci separava dalla vera e propria Bovisa, si riempiva via via di auto all’inverosimile… con tante macchine sempre di più com’è bella la città, cantava Gaber. La nostra insegnante arrivava a piedi provendo da piazale Lugano, proprio passando sul ponte. Immagino sempre più a fatica, vista l’aria. L’aria, che nei sogni della Pizzigoni avrebbe dovuto essere salubre, già metteva a dura prova i nostri polomincini. I primi Tir svettavano al piano di sopra, le filovie stridevano frenando. Fino alla botta finale. Abitavo lì dietro, con vista sul viale Monteceneri. Tagliarono tutti i platani dove si giocava fra una carreggiata e l’altra e fecero un fantastico prolungamento del cavalcavia, a perdita d’occhio fino in direzione del lontanissimo (per le mie dimensioni di allora) piazzale Lotto. “Devono passare le macchine”, si disse in loco, con rassegnata o fideistica, secondo i casi, adesione ai miti del Progresso, ancora in gran voga in quell’era beata. Ora si parla tutt’al più di sviluppo, senza maiuscole, senza alcun senso di speranza insomma; questione di numeri e di quantità, non di qualità ed emozioni.

E dal 1965 passarono, le macchine, eccome se ne passarono. Tonnellate di piombo, rumori continui giorno e notte celebrarono i fasti della Velocità e del Lavoro. Il manufatto resiste al tempo; nelle fantasie di chi lo vede dalla finestra sarebbe già crollato, cancellato e scordato mille volte con gran sollievo di tutti. Ma è solo un sogno. Dopo infinite proteste per i rumori e il resto sta sempre lì e viene (forse? davvero?) chiuso di notte per lasciare qualche ora di ristoro alle orecchie e alla respirazione degli abitanti.

La scuola Rinnovata

I gasometri

Nell’era post-ponte, dunque, per trovare quel poco di verde che non c’era più, via! transumanze a piedi sempre più lontano, con mamma e fratellini alla ricerca di qualcosa da vedere che non fosse meccanico,  strepitante e fumogeno. Da via Mac Mahon a quello che chiamavamo Villaggio, oggi parco Testori a Villapizzone. Erano casette dignitose con un poco di verde ciascuna, dove mia nonna stava a piano terra. Le casette non ci sono più, erano piccoline e non funzionali: abbattute e sostituite con palazzetti senza infamia e senza lode, e il parchetto al loro posto.

E ancora oltre si andava, lungo vie che menavano in plaghe estranee, strade mezze sopravvissute a campagne inesistenti di fianco ai gasometri che vedevamo riempirsi e svuotarsi come strani animali fantastici: lì c’era il gran coacervo che aveva portato luce in casa e per le strade ai milanesi, non so che grovigli di fabbriche, depositi, ciminiere, gasometri appunto… luoghi metafisici, sospesi fra realtà e immaginazione, a suo tempo dipinti da Sironi e descritti da Testori. Nascosti da muri, operosi personaggi trafficavano per il nostro benessere, fra bulloni e tubi, gru e schianti di motori, camion rombanti e ingombranti. Noi passavamo a fianco lungo la sterposa via Pacuvio che sfiorava quel mondo alieno e impenetrabile per finire in un altrettanto arcano ponte sotto la ferrovia, dal quale si passava ai confini di Quarto Oggiaro attraverso grovigli di orti abusivi, sfasciacarrozze, capannotti e quant’altro costella le lande abbandonate periferiche. Oggi di là dal ponte c’è un parchetto all’ombra di forme geometriche abitative standard.

Torniamo al soggetto del film. Non passavo da queste vie da molti anni. Ci ritorno in tempo di pandemia, appena qualche giorno prima della seconda zona rossa. Prima ci avevo solo girato attorno, per un motivo o per l’altro. Le ultime volte che ero venuto qui era stato per andare a prendere il treno delle Nord verso i laghi: la stazioncina compariva fra nebbie e strade che potevano portare ovunque, per quel che si poteva vedere. Oggi, eccomi in piena era Smart. Esco dalla stazione Bovisa del Passante, normalmente tappa di sbarco per le frotte di studenti che intasano il treno con gran sollievo degli altri passeggeri. Arrivo in uno spazio sopraelevato da dove lo sguardo spazia sul nuovo panorama milanese. A sinistra oltre i binari la vera vecchia Bovisa con le sue casette basse sovrastate da antenne e sbarrate da muri, a destra Villapizzone sovrastata dai nuovi grattacieli in lontananza; in mezzo l’occhio corre verso il centro e la Madonnina, oltre lo scalo Farini, uno di quelli che il Comune promette di “valorizzare” costruendo nuove case e uffici (come se ne mancassero) e lasciando i canonici parchetti addomesticati attorno, dove piantare alberelli simil-attaccapanni, mai innaffiati né curati, accanto ad aree cani e recinti colmi di giochi per gli ultimi bambini rimasti in città o che vi dovrebbero comparire.

Il luogo dove mi trovo è uno straniante miscuglio – come tutta la città, invero, e in particolare la periferia. Qui, in questi nuovi edifici lustri e asettici, si coltivano le magnifiche sorti e progressive e i ragazzi si industriano a realizzare sogni, costruendo carriere fatte di ponti, strade e non so che altro (ce n’è davvero bisogno, di ingegni, ma soprattutto, direi, per rimettere in sesto quello che sta franando in tutto lo Stivale). Appena fuori dalle mappe orgogliosamente esibite alla stazione, i resti di un mondo sparito di ringhiere, operai e nebbie. Qualcuno lo rimpiange? Mah! Io no di certo, però… Ora nei sogni dei Decisori e nei loro masterplan dovrebbe diventare un terreno di coltura di start up, un pullulare di joint-venture, una foresta di hub e Opportunità della Milano che non si ferma mai.  

 La wilderness urbana

Scendo le scale verso il campus figo del Poli, dalla parte di Villapizzone. Sul muro davanti c’è la scritta “Bosco di sculture” con il disegno di una goccia verde, incorniciato da un murale che rappresenta un qualche indecifrabile troll senza testa (dove dovrebbe esserci la testa c’è la targa con il nome della via). Primo indizio, sono sulla strada giusta. Arrivo in una piazza-parcheggio deserta, alla De Chirico; l’effetto è accentuato dal fatto che siamo nei giorni di didattica sospesa. Solo una ragazza passa in bicicletta costeggiando quella che scoprirò trattarsi della Biblioteca, un cubo grigio impreziosito da sbarre rosse in stile Mondrian. Sul marciapiede extralarge, panchine quadrate senza schienale scomode abbastanza da non favorire la sosta, lampioni rossi storti, alberelli in riga. Da lì risale la rampa verso la stazione. Muse inquietanti aleggiano, con tanto di treni sferraglianti appena oltre i muri e il gasometro incombente sopra i cubi politecnici.

Entro in un bar, al piano terra di una superstite casa rosa, pittoresca, di tre piani, ottocentesca, decorosa, poetica ed eroica nella sua nudità sotto agli svettanti orgogli ingegneristici. Ora mi sovviene, qui ai tempi della nebbia allignavano su sedie e tavoli di legno e formica i magütt dei perenni cantieri della zona. Entro e sento parlare in Inglese due distinti signori del confinante Politecnico, fra lindi tavolini e civettuole lavagnette con i menù cool per studenti. Carino. Esco dal bar mentre i due luminari continuano ammiccando la loro alata conversazione alzandosi e avvicinandosi alla cassa; il barista lamenta che dopodomani forse chiudono tutto di nuovo e non sa ancora cosa deve fare. Aggiro la postazione cinese di cibo preparato per le giovani bocche in pausa, esco dal soggetto di fantascienza ed entro in un fumetto di Asterix, il guerriero gallico dell’ultimo villaggetto che resiste all’esercito romani nei boschi. Girando a destra, c’è una strada senza uscita che però corre verso qualche parte. A sinistra il lindo marciapiede sotto alle aule da cui proviene il suono di voci di qualcuno che si applica coscienzioso agli studi; a destra il marciapiede non c’è, ci sono sterpaglie e rifiuti vari sotto al muretto sbarraferrovia seppellito da rampicanti. Dall’altra parte della ferrovia un megacapannone postindustriale istoriato coi soliti graffiti. La via porta a un grumo di edifici improbabilissimi che neanche Escher. Si vedono muletti in azione, un balcone fiorito, insegne di artigiani… ma non ricordo bene i dettagli, qui già il dire vien meno, potrebbero apparire anche tre fiere che la diritta via era smarrita. Qui compare il mio contatto, un custode del bosco che assomiglia a Obelix. Entriamo di straforo nel bosco della Goccia, non si potrebbe, ci lavorano. È un’area selvaggia. Gemellata idealmente con la Piazza d’Armi, l’altro Buco Verde meneghino dove sono state inghiottite dalle forze gravitazionali estreme le attività ormai inutili dell’epoca illuministica e militare.

Recita il sito del comitato: “42 ettari di bosco spontaneo con 2500 alberi di alto fusto - una straordinaria wilderness urbana che rischia la cementificazione”. Da 10 anni qui c’è una disfida che vede da una parte poeti e artisti, cittadini della zona e no, agronomi e mamme, ricercatori, urbanisti, giornalisti e naturalisti, dall’altra i megadirigenti galattici del Politecnico, del Comune e via elencando. Che hanno dietro i colossi dell’acqua, della metropolitana e chissà quali altri conglomerati. La Goccia era un terreno così chiamato per la forma che assume, delimitata da ferrovie e strade. Dedicato all’industria del gas. Da qui si poterono illuminare le case dei milanesi e le strade. Tutto iniziò nel 1905 quando arrivò l’Union des Gaz di Parigi. Portandosi dietro come corollario impianti e altre fabbriche chimiche. Arrivavano qui camion e treni carichi carichi di gas. Qui venivano lavorati e stoccati. Il terreno in oggetto, dismessi nel 1969 l’industria del gas e gli annessi, rimase inesplorato; l’area venne chiusa definitivamente nel 1994. Sigillata. Nessuno ci entrò, tranne forse qualche addetto o qualche occupante abusivo. 

Da fuori, gli abitanti del circondario non videro più i gasometri in funzione. Silenzio, vuoto. Videro alberi crescere, le cime di anno in anno più alte, le fronde intrufolarsi oltre le inferriate. Qualche albero fu anche piantato, per motivi ignoti; intanto le strutture dismesse perdevano pezzi, sotto l’esplosione lenta e costante della natura lasciata a se stessa. Platani, pioppi, bagolari, frassini, tigli vennero su e ora hanno decenni di onorata carriera. Ci fu un passaparola – si fa per dire – fra gli uccelli della metropoli, dai più comuni ai gufi e ai picchi; per vie occulte e notturne arrivarono ricci, lepri e conigli, scoiattoli e volpi. Accidenti, non ci si può fermare un attimo che si ritorna alla giungla. Non sia mai! Questo devono pensare nel loro subconscio meccanico i Decisori, inorriditi dal malfunzionamento del sistema in questa plaga. Non sia mai che un angolo possa rimanere fuori dal controllo dell’Uomo con la U maiuscola. A Milano, poi! I grandi piani, il sacro PGT ne rusperanno via almeno la metà. O peggio. Non sia mai che i cittadini possano respirare in pace un po’ d’ossigeno e avere un po’ di frescura in quei quartieri dove il verde al massimo è previsto, se va bene, nei soliti parchetti ecc. ecc. come sopra. E non sia mai che possano scorrazzare in pace anche i cittadini a quattro zampe, con code e ali: forse che hanno la carta d’identità? Lo SPID e le credenziali per fare un reclamo o chiedere ospitalità e sussidi? I boschi possono essere solo verticali, a Milano?

Il bosco delle sculture

Procediamo veloci per schivare la vigilanza; Obelix mi porta a vedere il Bosco delle sculture. Sul sentiero nel folto mi mostra in fretta dove hanno già disboscato pioppi, dove stanno passando ruspe e camion non ben identificati. Compaiono le opere d’arte poste da una congrega di artisti impegnati e innamorati del verde: meduse diafane e uccelli sgargianti appesi ai rami, un tronco tagliato in modo che ci si possa entrare come in un abbraccio, una ninfa dei boschi con un cerchio sollevato fra le braccia levate in alto, metaforiche uova sul terreno, orecchie sui tronchi, fiori colorati ad altezza d’uomo, cavalli di pietra al pascolo. 

È autunno e le foglie parlano, tutto il boschetto sembra raccontare qualcosa. Per un attimo potremmo essere ovunque, anche in una Triennale alternativa. Qui gli attivisti hanno fatto anche visite militanti, petizioni e ricorsi, performance e biciclettate. Il comitato si batte da quasi dieci anni dopo aver ottenuto almeno di entrarci a vedere.

Non si sa quanto durerà, questo bosco. Il Politecnico ha Diritti di Edificazione. Che pare valgano più di quelli di Respirazione. Non ascolta quello che dice la gente ma fa Calls for Ideas, da presentare unicamente in Powerpoint nelle sedi stabilite e preapprovate. I conigli, i gufi, gli alberi e i bipedi che simpatizzano per loro trattengono il fiato. Non sarebbe male che almeno un angolo già pronto con il suo verde sia usato per fare stare bene gli abitanti di questa città pm10cica, non sarebbe male che fosse adottato con orgoglio e non abbandonato in un cassonetto un bosco che non ci è costato niente mentre altri abbiamo dovuto lavorare quarant’anni per farli crescere. Non sarebbe male che il Sindaco annunciasse – sto sognando, sia chiaro – che la città ha deciso di proteggere un’oasi di biodiversità, che si faranno i parchetti ma soprattutto si salveranno gli alberi che ci sono già, che senza costi aggiuntivi abbattono la CO₂, rinfrescano la città, ossigenano l’aria. Invece degli Archistar, questa volta, diamo un appalto gratuito alla natura che sa il fatto suo e ha già un Piano di Ripristino Ambientale in corso, sperimentale beninteso… ma di esperienza la natura ne ha quanto basta, direi, si tratta di miliardi di anni. Nessuno studio di ingegnere o architetto o urbanista ha un curriculum del genere: lavora da sempre in tutto il pianeta, con discreto successo, anche se a volte può non piacerci e ovviamente non possiamo affidarci solo a lei (le macchine sono utili, i medicinali sono una bella invenzione, l’elettricità è meglio delle le candele); magari però stavolta diamole retta più del solito. Non si sa mai. Continuo a pensare: sarebbe bello che questa amministrazione pubblica avesse la brillante idea di dire: <<Diamo questo spazio, così come, alla cittadinanza; ne facciamo un’oasi protetta, che ripulisce l’aria e il terreno naturalmente invece che con costose bonifiche; facciamo sì che i bambini della zona imparino cos’è un albero, cosa sono le stagioni, come vivono gli animali selvatici, come ci si può incontrare e divertire anche all’aperto, anche senza dover assembrarsi in locali o sempre negli stessi 4-5 posti che diventano poi focolai, in questo periodo di virus. Visto che vogliamo riforestare Milano, lasciamo le foreste che ci sono già; visto che parliamo sempre di Green City, tuteliamo gelosamente il verde che esiste già. Del resto, è modernissimo avere spazi verdi come questi che s’insinuano dentro la città, come avviene nelle città del Nord Europa, in Germania e Olanda ad esempio, dove si possono fare chilometri a piedi nel verde in città senza incrociare strade e si può camminare con calma, prevenendo stress e disturbi psicosomatici, facendo moto, ossigenandosi, facendo così risparmiare il servizio sanitario dando fiato a bambini, cani e anziani sotto casa. Del resto, lo dicevano anche qui da noi gli urbanisti, decenni fa. Facciamo un patto con i cittadini, decidiamo di sacrificare un po’ di profitto privato e “pubblico” in favore della salute di tutti>>  

 

alcune delle sculture 

Assorto in questi pensieri straordinari esco dal bosco. Saluto il mio accompagnatore che svanisce all’istante (sarà mai esistito davvero?). Riprendo la strada verso la civiltà del fare. Mi attardo a guardare attorno. Desiderio di contemplazione. D’improvviso mi rendo conto: ecco, il bosco aiuta a pensare. I pensieri vengono su come gli alberi, lentamente, germinano e crescono, prendono luce e affondano radici, mettono foglie e frutti. Solo le macchine, il PIL, i fatturati e i seggi elettorali devono per forza crescere sempre velocemente, e se qualche ramo va verso il basso o cresce un poco storto, o dà riparo a un nido, o cade naturalmente e marcisce con giovamento del terreno, non sta bene. Forse è proprio per questo che l’apparato continua imperterrito a considerare un’area selvaggia, invece che come una boccata d’ossigeno gratuita, come una rognosa gatta da pelare?

Quello che risulta è che il Piano di Governo del Territorio permette di costruire sulla metà dell’area. E anche sull’altra metà si muovono cantieri. Il rischio è imminente. Forse, quando leggerai questo articolo il  bosco non ci sarà più.

Ecco la lettera aperta che il Comitato per il parco La Goccia ha scritto il 19 gennaio al Sindaco di Milano, all’Assessore a Urbanistica, Verde e Agricoltura, all’Assessore a Partecipazione, Cittadinanza attiva e Open data e al Presidente del Municipio 9.

«Incredule, facendo una passeggiata dopo diverso tempo a causa della pandemia, sabato 16 u.s. ci siamo accorte, sul lato più lontano e nascosto della Goccia, verso Villapizzone – nell’area dei gasometri di Bovisa - di un formidabile scavo, una trincea di almeno un metro di profondità, lungo via Pacuvio, sull’area di proprietà di A2A, azienda a partecipazione pubblica. A che cosa serve? Sulla cesata di cantiere compare la scritta “lavori in corso” ma non abbiamo trovato nessun cartello che, come previsto dalla normativa, indichi i motivi e i responsabili dei lavori. In mancanza di trasparenza e di informazioni ufficiali, i cittadini possono affidarsi soltanto a voci di corridoio: la lunga trincea servirebbe da fondamenta per un muro che, sostituendo la rete esistente, impedirà anche la vista dell'ultima straordinaria veduta dell’amato Parco Goccia. Per quale motivo si continua a rosicchiare, qua e là, porzioni di terreno alberato in mancanza di un progetto, da anni richiesto dai cittadini, che salvi le migliaia di alberature esistenti? È ovvio sospettare che si tratti di una tattica volta a distruggere mano a mano il verde, a favore della cementificazione.

In particolare non è la prima volta di A2A. Sappiamo che A2A si ritiene superiore alle leggi, come è dimostrato dal subdolo abbattimento di circa 80 pioppi, sempre nella stessa area, avvenuto nel marzo 2020, senza aver richiesto i permessi previsti dal regolamento comunale del verde. In piena pandemia il controllo da parte dei cittadini, ora con la trincea scavata, come allora con l'abbattimento dei pioppi, diventa più difficile e evidentemente permette, a chi non vuole essere disturbato, di agire impunemente. Tuttavia anche ai tempi c’è stato chi del Comitato la Goccia se ne è accorto, vedendo attraverso il reticolato, le cataste di tronchi e i ceppi segati, e l’ha denunciato alla Procura della Repubblica.

A dimostrazione del dolo da parte di A2A c’è la dichiarazione, in luglio 2020, della segreteria dell'Assessore al Verde, Pierfrancesco Maran, che recita : “L’intervento in oggetto è stato effettuato direttamente da A2A, (…) senza che l’Amministrazione Comunale fosse stata informata preliminarmente. Per tale ragione, in considerazione del fatto che l'intervento non è stato preceduto da alcuna richiesta, né autorizzazione, l'Amministrazione ha avviato le procedure previste”. La multa comminata per l’abbattimento illegale è stata “pari a € 69.400,93”. Non sappiamo se la multa sia stata pagata e quindi possiamo semplicemente affidarci a voci di corridoio. L’innalzamento dell’ipotetico muro a cosa potrebbe servire se non a nascondere, ulteriormente agli occhi di testimoni, attività di costruzione di qualsivoglia edificio, per il quale l'abbattimento illegale dei pioppi diventerebbe il necessario antefatto?

Signor Sindaco (con delega alla Transizione Ambientale), signori Assessori, al Verde e alla Partecipazione, Municipio 9, siamo nuovamente a chiedervi spiegazioni e interventi che riportino questa antica questione del Parco la Goccia, alla dovuta attenzione del Consiglio Comunale e della cittadinanza.

Ripetiamo la richiesta di essere messi a conoscenza dei progetti reali su tutta l’area della Goccia. Se non esistono è inconcepibile che si proceda a spizzichi e bocconi, su un’area strategica, sia per la posizione (corridoio verde tra lo Scalo Farini e i parchi a nord) sia per la funzione di mitigazione del clima (è un’area grande quasi quanto il Parco Sempione). Se invece il progetto complessivo esiste, è ancora più inconcepibile che i cittadini vengano tenuti all'oscuro. Siamo in campagna elettorale. Abbiate il coraggio di esplicitare le vostre intenzioni».

 

Parco La Goccia

Come ci si arriva

Con i mezzi e a piedi: Passante Ferroviario fermata Bovisa

In auto o in bicicletta: da piazza Castelli (in fondo a via Mac Mahon)

Apertura

Chiuso, è area di cantiere. Il Comitato per il Parco effettua saltuariamente iniziative culturali. Finché sarà possibile.

A chi rivolgersi

Comitato la Goccia  -  www.parcogoccia.com

un video su La Goccia

https://www.youtube.com/watch?v=6QFZr-OdT4I&feature=emb_title&ab_channel=ComitatoLaGoccia (sotto immagini tratte dal video)