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La cicogna, la rana e il bradipo, ovvero la campagna in città: il Ticinello

Scritto da Stefano Fusi. Postato in Notizie

La cicogna, la rana e il bradipo, ovvero la campagna in città: il Ticinello

Nei giorni del Fuori Salone - quando ancora non è arrivato il Virus -  la città scoppia di eventi, feste, presentazioni a celebrare gli Arredi e il Design che giustamente danno lustro a Milano. Tutto bello e trendy, l’economia che gira, la nuova Milano modello Expo che si mette in mostra, attrae, seduce, alla caccia delle Occasioni e del Futuro. La città-vetrina, nel bene e nel male. Per evitare il casino, come si dice da queste parti, in quei giorni invece noi del club del Bradipo camminiamo in campagna, come presaghi dell’era-covid che in seguito ci avrebbe obbligati a distanziarci.

Mi chiedete che cos’è il club del Bradipo? Uff, già parlarne mi stanca. Ma faccio uno sforzo. Ne scrissi la prima volta mi pare ben 30 anni fa, e ancora 13 anni fa, non stressatemi troppo. Va bè, se proprio devo. È un club moooolto esclusivo in questa metropoli frenetica, poco noto perché non fa nulla, né proselitismo né eventi, niente tessere né attività, semmai passività. Infatti s’è eclissato. Quando lo fondammo, in tempi ormai remoti, in un impeto malsano di iperattività uno voleva fare il presidente, ma già quel fare lo escluse in partenza dalla candidatura, che s’inabissò all’istante fra i lazzi. Nel seguito della bevuta conviviale che aveva favorito quel parto ideale, ci fu un altro rigurgito poco bradipesco e io fui incaricato in deroga al non-regolamento di parlarne e scriverne. Accettai con riserva il sacrificio dall’autoescluso presidente subito dimessosi, e vi tenni fede agendo come il bradipo, ovvero facendo poco o nulla salvo blaterarne ogni tanto con qualche amico. Come per magia, però, scritte inneggianti al bradipo apparvero nei mesi successivi sui muri dell’Università di Pavia occupata dagli studenti: “Il bradipo è lento ma feroce”, se ben ricordo, e sui muri della circonvallazione a Milano (“bradipo libera tutti”). Ma giuro che noi fondatori non avevamo fatto proprio nulla, anche perché praticamente ci eravamo già sciolti dopo pochi giorni e ognuno si era già rimpiattato sul proprio ramo.   

Noi bradipi, per farla breve e per non contraddire allo spirito guida del bradipo appunto, noi bradipi dicevo,  senza bisogno di andare lontano da casa, meditabondi, ci aggiriamo tuttora piano piano fra gli alberi, tenendo fede al motto solvitur ambulando, ovvero (libera traduzione) “le cose si risolvono camminando”. Anche a Milano, da semiclandestini, mentre altrove le folle movidano e selfeggiano stipate. E per camminare bene con calma solitari o quasi e lentamente, serve un bel luogo, rilassante e accogliente, possibilmente silenzioso anche se non deserto. Eccoci allora qui a due chilometri da casa in linea d’aria, vicino alla cascina Campazzo, nel parco del Ticinello, periferia sud dalle parti di piazza Abbiategrasso. Ci arriva anche la metropolitana, adesso, è a 400 metri da qui. Ci si può giungere velocemente, alla faccia del simpatico animale arboricolo sudamericano. Siamo a neanche quattro chilometri in linea d’aria dal Duomo. Al Ticinello, appunto. Il nome del parco non c’entra nulla con il fiume Ticino, viene dalla denominazione di un “cavo” ovvero un piccolo corso d’acqua artificiale che passa per queste plaghe e le irrora.

 

Le marcite e l’agricoltura a dimensione umana

Dal solito quartiere residenziale si entra immediatamente in piena campagna. Non una campagna abbandonata, non un luogo selvatico al 100%, ma una campagna prospera che è un monumento vivente al nostro passato e una speranza per il futuro, un bene culturale oltre che ambientale. Che va conservata e nutrita come si curano e conservano le radici affinché una pianta si possa slanciare verso l’alto. A vederla, così semplice, sobria e pacifica, non si riescono a immaginare tutti gli anni di battaglie per salvarla dalle sgrinfie dei palazzinari, battaglie durate almeno trent’anni. E non si riesce a immaginare neppure il tempo più addietro: la cascina che ne rappresenta la porta d’ingresso è antica, pare del XIV secolo. Da allora si coltiva la zona anche con le marcite, che proprio in quel secolo erano arrivate dalla vicina Chiaravalle e poi si sono perfezionate. Ci sono e funzionano ancora oggi, uno fra i pochi luoghi a Milano. Le marcite, quella meraviglia inventata dai monaci che pregavano lavorando e viceversa: irrigazioni sapienti, con un sottile strato d’acqua che scorre costantemente sull’erba. Ciò consente di avere più raccolti di foraggio l’anno, di avere l’erba anche d’inverno. Sono pochissime ormai a Milano e dintorni: oltre a queste del Ticinello ce ne sono attorno all’abbazia di Morimondo, sul Ticino; ce n’erano fino a pochi decenni fa attorno all’abbazia di Chiaravalle, e per l’expo si tentò di ripristinarle ma… non c’è nessuno a lavorarle, e son lì, testimonianza dell’epoca degli sprechi e dell’apparenza velleitaria. Chi sa vangare, chi fatica, oggi? I giovani lo farebbero anche volentieri, tanti tornano alla terra, ma qualcuno li porta mai a vedere una marcita, a imparare a farla? Ce ne saranno ancora? Quelle vere sono una deliziosa forma di ingegneria naturalistica e idraulica, sono avanzatissimo design applicato, prodotto di osservazione e comprensione profonda dei meccanismi naturali messi in pratica come in una preghiera di ringraziamento verso la terra, opera culturale e paesaggistica e di Land Art allo stesso tempo. “Oro verde di Lombardia”, era chiamata. Un giacimento, una miniera, la fonte concreta della ricchezza ben prima della smaterializzazione finanziaria. Permette di fornire direttamente il foraggio alle mucche, evitando di dover ricorrere all’alimentazione industriale come avviene quasi ovunque ormai, con risultati per la nostra salute quanto meno dubbi. È un ecosistema artificiale ma che impara dalla natura e la asseconda, la fa germogliare e fruttare conservandola. Integrata nel circondario fatto di alberi a filari lungo i suoi confini, che nutrono il suolo, i rami e le foglie a terra diventano casa di insetti, sfalci lasciati sul suolo per proteggerlo e farne casa di microrganismi utili.

Una raffinatissima tecnica, garanzia di futuro come sono solo quelle che rispettano e non violentano la natura. Tecnologie appropriate e dimensione umana, come quelle che sfruttano l’acqua, i mulini; è quando la tecnologia diventa troppo potente e troppo efficiente, orientata solo al profitto immediato e all’esaurimento delle risorse, che l’ambiente soffre. Il sito del Parco Agricolo Ticinello spiega bene come funzionano le marcite e le loro straordinarie qualità; visitandole si fa un viaggio nel tempo ma si viene presi anche dall’urgenza di far sì che continui a esistere. Altro che montare faraonici expo sull’alimentazione sponsorizzati da MacDonald, qua a Milano bastava venire a visitare le marcite. Piccolo è bello, e sano.   

Tecnica agronomica ed ecologica, la marcita, antica, tramandata da generazioni, che non bisogna perdere: oltre a nutrire noi umani, la marcita aveva (ed ha) il pregio, insieme ai canali di irrigazione che l’alimentano, di diventare anche casa di animali preziosi come la rana, che è stata fra l’altro anche cibo per tanti secoli dei contadini. La rana è un insetticida naturale. Non per niente è stata presa a simbolo di chi ha combattuto per anni per istituire il Parco Sud del milanese, dove il gracidare era comune, un ipnotico sottofondo alle sere delle belle stagioni; un tranquillante e sonnifero naturale e gratuito. Un po’ noioso forse ma efficace. La rana è un indicatore ecologico, nostra alleata contro gli insetti e contro gli squilibri ambientali. Come del resto sono alleati i predatori della rana stessa, gli uccelli classici della pianura padana, gli slanciati aironi e i loro parenti garzette (quelli interamente bianchi, più piccoli e aggraziati), tarabuso e nitticora. Quest’ultima è più rara da vedere perché in genere si aggira a caccia di notte, da cui il suo nome (“corvo della notte”). Come la cicogna: che eccezionalmente, dopo anni e anni, è riapparsa anche qui. Proviene da poco più a sud, appena al di là della tangenziale, dove c’è addirittura un luogo dove nidifica sotto protezione: è la stazione di ambientamento della cicogna di San Pietro a Cusico-Zibido San Giacomo. Altri nidi sono sparsi all’interno dell’area del parco Sud e oltre, nel pavese (un altro centro di riproduzione della cicogna è a Zerbolò).

Schiacciati e scacciati dall’agroindustria che ha divelto siepi e filari di alberi per lasciar correre nei campi come Formula1 le mietitrebbie giganti e i supertrattori, questi alati dalle zampe lunghe ed eleganti erano quasi spariti negli anni Settanta. Qualcuno della mia età ricorderà la rivista naturalistica Airone, così denominata proprio come auspicio per il ritorno di questi splendidi uccelli che ormai sono tornati comuni anche ai bordi delle città. Anche il massiccio uso dei pesticidi e antiparassitari li faceva sparire, non si schiudevano le uova se ben ricordo, perfino nelle risaie stentavano insomma a sopravvivere. Quando tornano le ali, invece,  nei cieli sopra la città, è un buon segno, non solo per l’ecosistema fisico ma anche per quello mentale e spirituale. Un tempo si prevedeva il futuro dal volo degli uccelli, oggi dal volo degli uccelli vicino a casa possiamo vedere che un futuro è possibile. La catena alimentare virtuosa è questa: gli alberi forniscono il luogo di nidificazione per aironi e cicogne (le quali però più “civilizzate” non disdegnano i nostri manufatti: torri, campanili, antenne), nutrono il suolo e forniscono ossigeno; gli uccelli predatori limitano il numero di rane, topi pesci, gamberi e altri animaletti, proteggendo così l’insieme naturale perché quelli che sopravvivono sono i più forti e i più efficienti nel limitare gli insetti molesti. L’unica bestia che non ha ancora ben capito questo semplice circolo virtuoso è una bestia a due zampe e con una testa complicata e anche interessante, che però non sempre funziona.

Il rito ambrosiano

Torniamo dunque alla marcita e alla benemerita cascina. C’è anche una piccola chiesetta, l’oratorio di Sant’Ignazio di Antiochia del  XVIII secolo, che dovrebbe essere restaurata. È un’oasi storica e culturale, oltre che naturale. I contadini che vivono nella cascina sono riusciti a restarci anche perché, alla fin fine, il Comune nel 2011-2012 l’ha espropriata ai proprietari dei terreni. I quali avevano cercato millanta volte di sfrattarli con l’idea di proseguire l’imponente edificazione che già aveva invaso il vicino viale dei Missaglia. Una sequela di palazzoni giù giù fino ai bordi della tangenziale, chilometri di case anche di lusso. Senza fare nomi, era Ligresti. Era l’epoca in cui questi palazzinari (in buona compagnia) compravano terreni agricoli ovunque in periferia, poi muovevano le loro pedine nelle amministrazioni pubbliche, variavano la destinazione d’area, osteggiavano in ogni modo i coltivatori fino a sfrattarli e una volta ottenuto il loro esodo costruivano speculando a oltranza. Pratica nota fin dagli anni Cinquanta con il nome di “rito ambrosiano”, che non aveva nulla di sacro nonostante il richiamo al patrono meneghino: il riferimento era solo geografico e indicava una usanza molto diffusa in tutta Italia, a dir la verità, che però qui a Milano aveva ricevuto il crisma ufficiale per via dell’efficienza tutta lumbard e per le colossali dimensioni delle speculazioni edilizie degli anni del boom. Era un ciclo infernale corruzione-scambio politico-affaristico-devastazione del territorio. Non è mai cessato, è solo stato rallentato e unicamente per l’opposizione di tanti, non per un rinsavimento dei promotori. Oggi purtroppo tutto ciò continua sotto altre spoglie, con definizioni più sfumate e ipocrite, anche in centro e sulle aree appetibili ex-industriali, sugli scali ferroviari e così via. Tutto ovviamente ribattezzato secondo la nuova vulgata smart: housing sociale, riqualificazione, valorizzazione e via mistificando. Ma siamo sempre lì, guadagni facili e impiego di fondi della finanza o riciclaggio di danaro sporco alle spese del suolo, del patrimonio pubblico e dei nostri polmoni e cuori.

Pioppi, salici, rogge e animali

Questo angolino invece continua a restare lì, anacronistico e assurdo direbbero i cubo- e tecno-dipendenti, modernissimo  invece secondo i criteri ecologici più avanzati. Con le mucche, il latte appena munto e pulito distribuito nell’aia, le stradine in terra battuta fra pioppi vecchi decine e decine d’anni se non di più. Che a volte vengono tagliati non si capisce perché: manda… in bestia sentire quelli che “tanto sono malati”, “prima o poi cadono”. Ok la sicurezza, provvediamo a controllare gli alberi malati, ma ci si marcia sopra troppo, per far legna, addomesticando le relazioni di agronomi dalla dubbia competenza. Perché degli alberi si occupano agronomi e non forestali o naturalisti? Perché i buroarchitetti progettano parchi invece dei paesaggisti? Un tempo in queste contrade si diceva Ofelè fa el to mesté , “pasticciere fa il tuo mestiere”, ovvero non improvvisarti a fare ciò che non sai. Un motto forse da rivalutare. Gli alberi vivono anche se non sono coltivati, anzi vivono meglio. È così difficile da capire, che non sono solo legna ma organismi viventi che interagiscono con tutti gli altri e come tutti gli altri, danno casa agli animali, identità a un luogo, ombra e fresco ecc. ecc.? Pare di sì: è difficile da capire per quell’apparato industrial-gestionale-predatorio che marcia come un incomprensibile macchinario guidato ormai da scopi propri, senza alcuna utilità se non per chi lo controlla e ci guadagna. Una brutta malattia, insomma. Che bisognerebbe curare, ma come la sanità pubblica anche la sanità ambientale pubblica latita o è asservita a interessi che non sono quelli della maggioranza delle persone.   

Il parco del Ticinello consiste in 88 ettari di terreno, protetti dal Parco Sud, incuneati dentro la città. Alcune delle stradine che lo percorrono sono ormai poco utilizzate per il lavoro dei campi, rinselvatichite e piene di vegetazione, lungo le rive delle rogge, e di conseguenza piene di uccelli, di giorno come di notte, e di lucciole, farfalle e libellule. Sono stati piantati alberi per dare consistenza al verde e riprodurre il paesaggio tipico lombardo d’un tempo. Gli alberi sono stati affiancati a quelli già presenti, salici, querce, carpini, frassini, aceri, tigli, ontani. Il tratto più originale e caratteristico del parco è dato dai filari di pioppi lungo le stradine e i corsi d’acqua: è una riproduzione perfetta di quella che era la campagna secoli fa ma anche fino solo qualche decennio fa. Difficile trovarne una del genere in città ma anche altrove, perché ovunque la campagna è stata snaturata sotto il peso dell’industrializzazione dell’agricoltura. Molti pioppi sono grandi e anziani; alcuni purtroppo a volte sono abbattuti, e ne restano i monconi. È un peccato. Questi vialetti con i pioppi e i salici sono importanti come una via del centro, ci dicono chi siamo e cosa saremo, e a differenza dei palazzi sono vivi. Si possono sentire quando raccontano storie. Tirar giù un vecchio pioppo qui è peggio che buttar giù una scultura, che so, in piazza Scala. Non è rimpiazzabile, anche se oggi appena si butta giù un albero di parla ipocritamente di “compensazione” altrove. Quando muore, va sostituito, non prima.  

Ci sono altre cascine abbandonate vicino, con tetti sconnessi che danno rifugio alle rondini e a rapaci notturni. La cascina Campazzino, disabitata, anch’essa acquisita dal Comune, affiancata da orti, da quasi vent’anni è lasciata andare in malora. Ora forse faranno qualcosa, speriamo di compatibile con il luogo: i primi segni però non sono confortanti. Andando avanti fra i campi si arriva anche a un parchetto di quelli convenzionali con le stradine diritte, vicino alle case di Ligresti, dove sono stati piantati altri alberelli come compensazione ambientale dallo IEO, l’Istituto Europeo di Oncologia insediatosi sulla vicina via Ripamonti.

Da qualche anno il Comune è diventato proprietario del parco del Ticinello. Almeno l’edificazione sembra sventata. Anche perché ora le speculazioni più grosse si fanno in centro e il nuovo mito sono i grattacieli; sono gli emiri e la finanza internazionale a erigere boschi verticali et similia modello Dubai, in periferia non ne vale la pena, noblesse oblige. Le mucche nella stalla possono continuare a ruminare e a ricevere le visite di migliaia di bambini delle scuole o con i propri genitori che possono così scoprire che latte appena munto, fieno e letame non esistono solo nelle pagine dei libri di scuola. Il contadino può raccogliere fieno in abbondanza dai campi bagnati lì vicino senza dover essere parte di uno spot televisivo, la gente può andare a piedi da casa a prendere il fresco e fare feste sull’aia, a mangiare insieme, cantare e bere vino senza dover farsi spennare dai locali dei Navigli. A volte andiamo a prendere il latte così, proprio per il gusto di farlo, o camminiamo lungo le stradine all’ombra di pioppi e dei salici o andiamo a sentire gli incontri e a seguire le iniziative culturali.

 

Il parchetto dove lo metto

Tutto bene allora? No. Siamo sempre sul chi va là, in questi posti, da una parte e dall’altra. È il destino chi si prende a cuore la natura, a Milano e dintorni. I danee sono sempre in agguato. Ora il problema è la mania di gestione degli “architetti” e dei “gestori” del verde (ossimoro che viene spacciato per buono: quando mai il verde ha bisogno di essere “architettato”, quando è natura che preesiste a noi e non è una costruzione umana?) e dei loro finanziatori, che vogliono trasformare anche questo splendido angolo di campagna in un anonimo parchetto “fruibile”. Intendono illuminarlo di notte con il risultato di mettere in fuga le lucciole, abbattere 156 alberi colpevoli di essere “disordinati” (sì, incredibile ma dicono proprio così nelle Relazioni Tecniche di Programma, manifestando forse qualche problema di ordine freudiano).

 

Ma perché? Ah già, dimenticavo, non stiamo parlando di esseri umani, gli alberi non hanno diritti, soprattutto se sono storti e fuori dagli schemi. Così come non hanno diritti gli animali, che fra quegli alberi vivono: tagliando gli alberi, togliendo i cespugli e i rovi, ripulendo dai rami caduti per “fare ordine” infatti si sfrattano anch’essi. E che diremo ai signori elencati al citofono nel condominio verde dall’associazione per il Parco del Ticinello: ai signori cinciallegra, cinciarella, cincia bigia, picchio verde, picchio rosso maggiore, passera europea e passera mattugia, luì piccolo, gruccione, capinera, fringuello, rondini, rondoni, civette e gufi? Questi ignari pennuti vengono su quegli alberi da frutto messi nel mirino dai tagliatori per nutrirsi e proseguire così il loro servizio di utilità pubblica: catturare insetti, spargere semi con le loro feci, allietare le nostre giornate. E come la spiegheremo ai loro compari senza fissa dimora che allignano nei dintorni, nelle marcite e fra gli arbusti: aironi cinerini, aironi guardabuoi, garzette, gallinelle d’acqua, anatre selvatiche, canapino, sparviere, gheppio e lodolaio oltre alla neoimmigrata cicogna che però è ancora solo in perlustrazione? E dove andranno gli altri abitanti del luogo, se ci arriveranno frotte di umani con motori annessi e cani al seguito: raganella, rospo smeraldino, rana verde, tritone, farfalle di 19 specie, libellule di 18 specie di libellule, conigli selvatici, lepri, ricci e pipistrelli? Mah. Esodo di massa? Davvero in città dobbiamo restare solo noi umani e i nostri amici a quattro zampe ma solo quelli al guinzaglio?

La “fruizione” di un parco significa, nelle menti lineari e semplificate dei Pianificatori, che ci arrivi tanta gente, che si aprano strade e stradette tecnologiche prive di pozzanghere e fango (si sa, il fango sporca…), che di notte si possa vedere come di giorno, che diventi una sorta di luna park buono per i selfie, “ecco vedete qui la campagna, ecco la marcita…”.  Ce la faranno anche questa volta, al Ticinello, a salvare la campagna per non farla diventare un giardinetto addomesticato e stinto? Sta a noi, direi, fare il possibile. È essenziale: è un corridoio ecologico fondamentale per tenerci legati alla campagna che sta oltre la città urbanizzata ma le dà da vivere. Ce ne sono pochissimi a Milano, ormai, sono soprattutto nella zona Ovest, altrove sono da ricostruire rinaturalizzando. Svuotare questo corridoio nell’area meridionale della metropoli è come tagliare il ramo su cui siamo seduti. Speriamo che il bradipo si salvi. Perché il bradipo, ahimè, dimenticavo, non ha predatori in natura: non lo si vede facilmente perché sta quasi immobile, come gli alberi, sta in alto irraggiungibile fra i rami, gli crescono addirittura sopra delle specie di licheni verdi che lo mimetizzano. Però ha dei nemici: gli unici a fargli del male e ucciderlo sono gli esseri umani, che lo cacciano con le cerbottane, e tagliano gli alberi dove vivono. Speriamo invece che l’apparizione della cicogna simboleggi quello che rappresentava questo animale bellissimo nelle fiabe e nelle tradizioni di un tempo: annuncio di abbondanza, gioia e prosperità. 

Parco del Ticinello

Via Dudovich, Milano

Come ci si arriva

Con i mezzi: MM2 linea Verde Abbiategrasso, 5 minuti a piedi

Apertura

Sempre aperto

A chi rivolgersi

Associazione Parco Agricolo del Ticinello, www.parcoticinello.it, Questo indirizzo email è protetto dagli spambots. E' necessario abilitare JavaScript per vederlo.